«Rileggo queste pagine e mi chiedo perché le ho scritte. Forse per far contento l’amico Carlo Feltrinelli, che voleva che scrivessi un’autobiografia, o perché queste sono le radici che mi hanno tenuto saldo ovunque sia andato nel mondo: l’antifascismo, la politica, la militanza, la passione per la medicina.»
L’autobiografia di Gino Strada, scomparso lo scorso 21 agosto, inspiegabilmente trova fra le sue pagine di tutto, fuorché lo stesso Gino Strada. Ed è commovente quanto, in un affastellarsi di aneddoti di guerra, malattia e povertà, di invettive contro un mondo ingiusto e incapace di sentimenti umani, sia scarsa la presenza del pronome “io”.
Dell’autobiografia c’è soltanto la scansione cronologica: poche pagine sugli studi di medicina, sull’impegno politico negli anni del Politecnico e poi ci si ritrova subito catapultati in Pakistan, in Afghanistan, a Hiroshima, in Sierra Leone. Ogni luogo è lo spunto per una denuncia, non per la celebrazione dei propri successi, ed è ogni persona che passa sotto i ferri di Strada a essere la protagonista di una storia terribile.
Da Kabul a Hiroshima, il racconto di una missione durata tutta la vita: «Non un'autobiografia, un genere che proprio non fa per me, ma le cose più importanti che ho capito guardando il mondo dopo tutti questi anni in giro».
Una persona alla volta non è il racconto di un uomo che pensava di cambiare le sorti dell’umanità, e, in realtà, non sembra nemmeno la storia di un uomo: è un susseguirsi di ingiustizie inspiegabili, di atrocità raccontate senza mezzi termini, in cui il fondatore di Emergency non presenta se stesso come un eroe, ma come una pedina di un grande disegno in cui i perdenti sono sempre i civili. Un disegno in cui Strada non ha grosse remore nel fare nomi e cognomi, dando riferimenti precisi e schierandosi apertamente contro chiunque consideri la guerra uno “strumento di pace”.
Gli eventi narrati da Strada arrivano a toccare la pandemia, la cui gestione raffazzonata è stata il manifestarsi di un sistema sanitario fallato, più volto al profitto che al benessere della popolazione. A fronte di una spesa sanitaria pubblica che viene considerata una spesa da contenere, piuttosto che un diritto da garantire, l’indignazione di Strada è evidente.
«C’è anche un altro intervento “strutturale” alla portata dei nostri governanti: sottrarre al settore militare un po’ delle risorse smisurate di cui gode. Anche di fronte agli enormi bisogni sanitari e sociali generati da questa pandemia, nel 2021 la spesa militare è aumentata rispetto al 2020. Dell’8 per cento, non spiccioli.»
In queste memorie non si percepisce tanto la fatica e l’onere di aver fondato Emergency, non c’è la velata ricerca di metaforiche pacche sulle spalle per aver svolto un ottimo lavoro, nulla di tutto questo. C’è la denuncia a tappeto verso le istituzioni, verso guerre che non avrebbero senso di esistere, ci sono i visi dei bambini di schieramenti opposti che vengono operati per la stessa ragione: non c’è la vita di Gino, ma ci sono le vite degli altri, “Gente inerme e spaventata che si era trovata colpita senza una ragione e che non aveva altra scelta che mettersi nelle mani di un chirurgo italiano. Un perfetto sconosciuto”.
«È questa la chiave di tutto quello che siamo riusciti a fare. Alla fine sono sempre il coinvolgimento, le energie, la condivisione, il sostegno di tanti che rendono possibili progetti apparentemente impossibili.»
La storia di Emergency, di una moltitudine di persone più che di Strada stesso, c’è, ci sono date, ci sono tappe geografiche, ci sono successi, scandali e difficoltà: ma rimane comunque il pretesto per portare avanti una bandiera, una denuncia a un sistema che lucra sulla malattia e che capitalizza sulla povertà. La retorica del “si può fare” non è più solo uno slogan, ma un pensiero fisso, tangibile: negli anni, Strada dimostrerà proprio questo, che “si può fare”, una persona alla volta.
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