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Verso il paradiso di Hanya Yanagihara

Tutti i bambini, anche quelli che non sono cresciuti in un ambiente religioso, prima o poi si fanno la stessa domanda: “Cos’è il paradiso? E dove si trova? E soprattutto, ci saranno ancora tutte le cose che amo nel luogo dove andrò dopo la morte?”

Immaginare un locus amoenus di caramelle e dinosauri di pezza è chiaramente un modo per combattere la paura della morte, ma davvero questo stratagemma viene utilizzato solamente dai bambini? E se anche gli adulti cercassero di costruire un luogo immaginario, al di là della morte, dove del mondo rimangono solo le cose belle?

I personaggi di Verso il paradiso, l’ultimo testo di Hanya Yanagihara, si interrogano proprio sul significato di questa semplice parola che racchiude mille significati, “paradiso” – com’è fatto, come raggiungerlo, come rimanerci per sempre.

Il nonno ci aveva pensato un attimo. “A volte non fare domande va bene, gattino mio […] Non fare domande può farti stare al sicuro.” Poi mi aveva guardato, mi aveva guardato attentissimamente, come se stesse cercando di memorizzare la mia faccia perché stava per non vedermi mai più. “Ma a volte devi chiedere, anche se è pericoloso.”

Le tre parti del romanzo, ambientate a cent’anni di distanza l’una dall’altra, rispettivamente nel 1893, nel 1993 e nel 2093, descrivono una storia alternativa del continente americano dove l’omosessualità è prima legale e assecondata, poi disapprovata, poi ancora sconsigliata dal governo. Questo però non deve spaventare: l’animo umano, e la sua tensione verso un mondo perfetto, un paradiso ideale, sembrano esistere invariati in qualsiasi punto del multiverso (e siamo sicuri, poi, che le differenze tra il nostro mondo e quello fittizio di Verso il paradiso siano così tante?).

Non era mai stato il tipo allegro, o leggero, nemmeno da bambino […] Anche l’amore, per lui, non era uno stato di euforia, ma una fonte di ansie e paure: l’amato lo ricambiava davvero? Quando l’avrebbe abbandonato?

A fare da personaggi principali alle tre storie sono i componenti della famiglia Bingham-Griffith, predestinati a scontrarsi, a mescolarsi, a perdersi e a ritrovarsi attraverso duecento anni di storia. La predestinazione è un altro dei temi fondamentali di questo testo: la ritroviamo nella riproposta quasi ossessiva dei nomi di alcuni personaggi, nel loro ritrovarsi e innamorarsi nonostante cerchino, talvolta, di sfuggirsi, e nelle idiosincrasie che attraversano il loro albero genealogico come un patrimonio genetico alternativo.

È vero anche che tutti i protagonisti di Verso il paradiso fuggono, chi dalle aspettative della società, o della famiglia, chi dal proprio lignaggio, chi dalla malattia, ultimo tema portante del romanzo. Una malattia che è psicologica, poi fisica, poi entrambe; una Sehnsucht, “malattia del doloroso bramare”, che si scontra e si confonde con il malessere fisico legato alle pandemie che decimano la popolazione mondiale dal 2050 in poi (e qui è difficilissimo non sentire, pesante come un macigno, l’eredità del COVID-19 sulla scrittura dell’autrice).

Il problema, però, di cercare di essere l’ideale di qualcosa è che arriva il momento in cui la definizione cambia […] Se lasci quel contesto, e ti lasci alle spalle quelle aspettative, ti ritrovi a essere niente.

Verso il paradiso è un libro completo, coinvolgente, tenero ma spietato, sul desiderio assoluto dell’essere umano di arrivare in un paradiso personale, inteso come luogo per ricominciare, non dopo la morte ma già in vita, per rimediare ai propri errori, avere una seconda possibilità di esistere secondo la propria natura; un luogo raggiungibile grazie alla forza che trascina i personaggi anche quando sentono di non poter muovere un passo: l’amore totalizzante e inevitabile.

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