Non ci sarebbe la regia teatrale moderna che conosciamo senza Strehler.
Il 25 dicembre del 1997 ci lasciava Giorgio Strehler. La sua eredità era già da tempo consolidata, il suo modo di essere metteur en scène, di lavorare con gli attori, di sviluppare anche sul territorio la sua concezione di teatro erano ormai elementi acquisiti. Il Piccolo Teatro di Milano ha raccolto e amplificato la sua visione anche dopo la scomparsa. Ma la mancanza di un carisma così grande, un’energia cosi dirompente, una voglia così straordinaria e “politica” di fare teatro portando in tutto il mondo questo scenario italiano tanto quanto internazionale, è difficile colmarla.
È il freddo dicembre 1997. Milano affranta si riversa nella sua camera ardente, aperta per 24 ore nella platea del Piccolo Teatro. Il mondo del teatro è senza parole. Come sempre accade per una morte improvvisa e imprevista – un infarto l’aveva colpito nella sua casa di Lugano - tutto sembra sospeso e chi resta è frastornato.
A rendergli omaggio Ferruccio Soleri, Valentina Cortese, Niuna Vinchi, Ottavia Piccolo, Monica Guerritore, Paolo Rossi, Rosalina Neri, Lella Costa, Milva, Philippe Leroy, Gianfranco Mauri, Renato De Carmine, Franca Nuti, Giancarlo Dettori, il regista Lluis Pasqual accanto ai tanti milanesi orfani di quest’uomo incredibile.
A Trieste invece pochi ricordano quel giorno e quel funerale, perché per suo stesso volere nella città dove era nato la salma arrivò quasi di nascosto: l'ora e il luogo vennero comunicati solo al sindaco e a qualche parente. Così, a dargli l'ultimo saluto non c'era la folla ma poche persone care accompagnate dal suono triste del carillon stretto nelle mani della vedova di Strehler, l'attrice Andrea Jonasson (anche se l’ultima compagna fu Mara Bugni).
Tante e importanti le donne nella sua vita: Rosita Lupi la prima moglie, Ornella Vanoni, Valentina Cortese... Era stata una donna anche la prima e fondamentale figura: l'amata madre Alberta Lovrich, una violinista metà dalmata e metà francese. Il padre, Bruno Andrea Vittorio Strehler, era morto di tifo a Vienna a soli 28 anni. Giorgio – nato il 14 agosto 1921 - all’epoca aveva solo tre anni e con la madre si trasferì prima a Trieste e poi a Milano. Tra loro si stabilì un legame fortissimo.
«Cara mammi - le scrive da Milano dove abita con la nonna nel 1929, quando di anni Giorgio ne ha appena otto - scusami, è vero sono un grosso pigrone, malgrado questo, ti penso sempre e desidero che tu torni presto.»
Iscritto all’Accademia dei filodrammatici, si diploma nel 1940. Ostile al regime fascista nel 1944, Strehler ripara a Mürren, in Svizzera poi a Ginevra, dove fonda la Compagnie des Masques e firma gli spettacoli con lo pseudonimo Georges Firmy, dal cognome della nonna materna. Riesce, nonostante le difficoltà, a mettere in scena diversi spettacoli, tra cui Assassinio nella cattedrale di T.S. Eliot, Caligola di Albert Camus e Piccola città di Thornton Wilder. Un esilio volontario, definito da lui stesso come uno dei periodi più bui della sua vita, condiviso con altri intellettuali italiani, tra questi Luigi Einaudi, Amintore Fanfani, Dino Risi, Franco Brusati.
Nel primo dopoguerra, al rientro a Milano, decide di dedicarsi completamente all'esperienza teatrale più completa: quella della regia.
Nell'aprile del '47 fonda insieme a Paolo Grassi e Nina Vinchi il «Piccolo»: il sipario si alza su L’albergo dei poveri di Maksim Gorkij.
«Lo facemmo per un bisogno di chiarezza e con l'intento d'istituire qualcosa che influisse sui rapporti tra gli uomini».
Un Teatro inteso come servizio pubblico: un’istituzione necessaria e a vantaggio di tutta la cittadinanza.
“Teatro d’Arte per Tutti” è il motto. Decisivo in questo senso anche l’incontro con Bertolt Brecht: dall’Opera da tre soldi (1956), passando per Schweyk nella Seconda Guerra mondiale (1961) fino a Vita di Galileo (1963), «prende forma una personale visione del teatro epico, in cui l’impegno didattico e politico si rivitalizza nel calore di un teatro profondamente umano».
Dal 1991 il Piccolo è anche “Teatro d’Europa”, come riconfermato dall’articolo 47 del DM n. 332 del 27 luglio 2017. Dopo essere stata fortemente patrocinata da Strehler, «la visione aperta e il desiderio di affermarsi in un orizzonte teatrale internazionale hanno trovato conferma e rilancio sotto la direzione di Sergio Escobar e di Luca Ronconi».
Nel 1987 fonda la Scuola di Teatro Luca Ronconi mentre instancabilmente porta in giro per l’Europa la sua concezione di regia.
La morte – che gli impedisce di vedere l’inaugurazione del nuovo teatro di largo Greppi ora Teatro Strehler - lo coglie nella casa di Lugano, una piccola, elegante villetta, a metà della collina che domina il lago: era diventata da qualche anno la sua dimora fissa.
Abbiamo fatto migliaia di recite: da Milano a Sydney, da Basilea a Figline Val d'Arno, da Innsbruck a Lecco, Sassari e tante altre località. Questa è vera politica teatrale, per noi Budapest e Vienna sono importanti quanto Gorizia e Avellino
Impossibile sintetizzare una vita di lavoro in un banale elenco di titoli.
Ricordiamo qualche messa in scena fondamentale: William Shakespeare (Re Lear e La tempesta), Carlo Goldoni (Arlecchino servitore di due padroni, Le baruffe chiozzotte, Il campiello), Anton Čechov (Il giardino dei ciliegi), Bertolt Brecht (L’opera da tre soldi, Vita di Galileo, L’anima buona di Sezuan) e Samuel Beckett (Giorni felici).
Alla domanda qual è stato il testo che ha amato di più? Strehler rispondeva sempre con indecisione.
Come si fa a rispondere? Non riesco a scegliere fra El nost Milan, L'opera da tre soldi, il Galileo. Quello che mi ha dato più soddisfazioni è stato L'Arlecchino servitore di due padroni, che ha fatto conoscere il Piccolo in tutto il mondo e ha fatto scoprire agli italiani la commedia dell'arte
È indubbio: lo spettacolo al quale, più che a qualsiasi altro, rimane legato il nome di Giorgio Strehler come regista fra i più importanti del Novecento è il goldoniano Arlecchino servitore di due padroni, la cui prima edizione per il Piccolo Teatro è datata 1947. Allora era stato l’indimenticabile Marcello Moretti a vestire i panni di Arlecchino. Dopo la sua scomparsa fu chiamato a sostituirlo Ferruccio Soleri.
«Nell’Arlecchino che costituisce il cardine della “riforma” teatrale goldoniana con il passaggio dalla maschera all’uomo. Strehler ha inteso comunicare e compendiare nel modo più completo la sua personale filosofia dell’arte scenica. Il risultato è stato uno dei successi più duraturi ed a più vasto raggio».
Un uomo vulcanico, instancabile, pieno di interessi, di relazioni, ma anche un uomo insoddisfatto e solo, come spesso lo sono i grandi artisti, i geni.
«La solitudine di Giorgio trapelava dai suoi monologhi di molte ore, zampillava nei suoi spettacoli ricercati, muoveva le sue iniziative sociali» scriveva di lui il registra teatrale russo Lev Dodin.
Anche un artista perennemente in contrasto, in lotta per uno scopo: l'ira di Strehler ha le sue radici nella stagnazione che paralizza il Teatro italiano e il Piccolo.
Diceva Milva di lui nel ricordo che possiamo leggere nel fondamentale libro di Cristina Battocletti Giorgio Strehler. Il ragazzo di Trieste. Vita, morte e miracoli
«Quello con Giorgio è stato un incontro non comune, ricordo l'emozione che mi ha dato con la sua personalità. Era come avere davanti non un uomo, ma un plotone di uomini. […] Mi accarezzava i capelli avevo un atteggiamento molto paternalistico, molto dolce, ma quando si arrabbiava era una belva.»
Prendiamo degli stralci dalle sue interviste nel corso degli anni per capire quale fosse la sua visione ampia, politica e popolare del teatro, ricordando anche che fu anche parlamentare europeo e senatore eletto con il gruppo della Sinistra indipendente.
Poco prima di morire a chi gli chiedeva se fosse ancora possibile e attuale la creazione del Piccolo: «Oggi il Piccolo non avremmo più la possibilità di farlo. Manca il clima del '47, quando c'era una società che voleva rifare il mondo, lo voleva più giusto. Era una volontà collettiva e forte. Questo vuol dire che le cose non si fanno per volontà del re, o per una coalizione di partiti, o perché due uomini, due pazzi, decidono di far nascere una certa cosa: è necessaria una volontà collettiva che non c'è più».
In una dichiarazione dal sapore di premonizione nel 1997 affermava:
«Nella stanchezza dell'oggi, nella sfiducia, nella mancanza di coraggio, io vorrei resistere ancora per tre, quattro anni; e poi passare la mano ai giovani. Vorrei finire la mia vita buttandomi nel domani».
Il 1997 era anche il cinquantenario dalla nascita del Piccolo, che lui voleva dedicare «a Paolo Grassi. La storia di questo teatro è stata la storia di tre persone (io, Paolo e Nina Vinchi) che si sono incontrate nel '47 e sono andate avanti. Difficile dire che cosa sono stati, questi tre. Si vedono le loro opere. Col tempo, è cambiato tutto. Paolo non c'è più, è stato assassinato col veleno della cattiveria».
Il suo desiderio più grande? «Non vivere più nell'angoscia del domani, ma sapere di avere creato una storia più solida, la cui vita non dipende più dall'avvicendarsi delle giunte».
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