Sapore di sala

74° Berlinale: Vince Dahomey di Mati Diop

© Image: Martin Kraft (photo.martinkraft.com) License: CC BY-SA 4.0 via Wikimedia Commons

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L’Orso d’oro della 74° Berlinale va ancora a un documentario.

Nella scorsa edizione se lo è aggiudicato Sur l’Adamant di Nicolas Philibert, mentre quest’anno è stato assegnato a Dahomey della cineasta franco-senegalese Mati Diop. Il film parla del ritorno di 26 opere del regno di Dahomey, portate via durante l’occupazione coloniale francese, che nel novembre del 2021 hanno lasciato Parigi per tornare in Benin. Si tratta in parte di un verdetto a sorpresa, in parte è  un riconoscimento importante per il valore simbolico che Dahomey rappresenta, soprattutto per l’importanza che questo evento ha riscosso nella terra d’origine, attraverso una molteplicità di punti di vista diversi.

Meritati anche il Gran Premio della giuria a The Traveler’s Needs di Hong Sang-soo e L’empire di Bruno Dumont. Nel film del regista coreano il personaggio interpretato da Isabelle Huppert, un’insegnante di francese, diventa quasi un’entità magica, inafferrabile, una donna del mistero avvolta nei tempi e nei ritmi sospesi del cinema di Hong e nei dialoghi apparentemente infiniti che alla fine svelano ‘la verità delle cose’. Quello del regista francese invece ha una contagiosa follia, nella creazione di un fantasy che s’incrocia con la visione del paesaggio del cinema del regista. Quasi un sogno, un esperimento di puro astrattismo che recupera lo spirito artigianale del cinema delle origini, ma è ancora in linea con la filmografia di Dumont: un film sul desiderio selvaggio e sulla possibile mutazione degli individui.

Il tedesco Sterben, cronaca familiare tra malattia, amore e morte, ha ottenuto a sua volta il premio per la miglior sceneggiatura di Matthias Glasner, anche regista del film.
Come attori sono stati premiati Sebastian Stan, che interpreta un attore newyorkese che ha un volto mostruoso e si sottopone a un intervento chirurgico per cambiarlo, nella nuova produzione A24 A Different Man, ed Emily Watson che porta sullo schermo una suora dalle sembianze quasi diaboliche in Small Things Like These di Tim Mielants, che ha anche inaugurato il festival.

Infine, l’Orso d’argento per la miglior regia è andato al cineasta domenicano Nelso Carlos De Los Santos Arias per Pepe, dove una storia reale rievocata da un ippopotamo sfocia nella leggenda, mentre quello per il contributo tecnico se lo è aggiudicato il direttore della fotografia Martin Gschlacht per The Devil’s Bath, compiaciuto esercizio sulle forme dell’horror diretto da Veronika Franz e Severin Fiala, e prodotto da Ulrich Seidl.

Ignorati i due italiani in competizione dalla giuria presieduta da Lupita Nyong’o, due film diversissimi tra loro. Se Another End di Piero Messina, che ha un cast internazionale con protagonisti Gael García Bernal, Bérénice Bejo e Renate Reinsve, è un confronto con le forme del fantasy che resta schiacciato dal peso della propria smisurata ambizione, al contrario Gloria!, opera prima della cantante Margherita Vicario, è di una libertà e gioia impressionanti nella mescolanza tra film in costume e moderno musical, non solo particolarmente ispirato ma che cerca attraverso il cinema nuove forme di racconto con una passione per i suoi personaggi che risulta contagiosa.

Che cos’altro si porta dietro questa 74° Berlinale? Sicuramente My Favourite Cake, dramma mascherato da commedia sentimentale che nasconde invece un’aperta critica al regime iraniano diretta da Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha, a cui è stato impedito di partecipare al festival. In Berlinale Special hanno lasciato il segno il lucidissimo Averroès & Rosa Parks di Nicolas Philibert, dove la presenza della telecamera diventa quasi invisibile nella continua ricerca di un dialogo tra operatori sanitari e pazienti di due unità psichiatriche dell’ospedale Esquirol di Parigi, il viaggio nel tempo attraverso il passo lentissimo del monaco Lee Kang-sheng in Abiding Nowhere di Tsai Ming-liang e altri due titoli non totalmente compiuti ma che cercano comunque delle nuove traiettorie all’interno dei generi: Love Lies Bleeding di Rose Glass e Spaceman di Johan Renck e Adam Sandler.

Con l'edizione celebrata quest’anno, si chiude un ciclo alla Berlinale. La settantaquattresima verrà infatti ricordata come l’ultima edizione diretta dal direttore artistico Carlo Chatrian e dal direttore esecutivo Mariëtte Rissenbeek, che hanno lasciato una traccia importante della propria forte identità nella storia del festival. Dal 2025 si volta pagina con la nuova direzione di Tricia Tuttle.

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