Maria Luisa Spaziani, in Montale e la Volpe. Scritti autobiografici (Mondadori 2011), racconta un episodio gustoso che vede protagonisti il poeta genovese e Carlo Emilio Gadda. Invitati a cena nella sontuosa villa dei Rodocanachi ad Arenzano e trovatisi l’uno di fronte all’altro «sul lungo tavolo», il primo appare un po’ inappetente, mentre il secondo è – come al solito – affamatissimo. Fatto sta che la «faccia da Venerdì Santo» di Montale «con quella sua castità ricattatoria» costringe il povero Ingegnere a «mangiare poco o niente», anzi a fingere di fare due passi in giardino per «esigenze peristaltiche» e a raggiungere in realtà una vicina osteria dove «si fa servire una grossa fiorentina al sangue con contorno».
Peccato poi che Carlo Emilio, sbadato com’è, si dimentichi di pagare il conto, saldato infine dalla padrona di casa, Lucia Rodocanachi. La quale «giorni dopo ne parla a Gadda stesso, scusandosi se la cucina non era all’altezza della sua fame. Gadda prima ne rimane sconvolto, poi perde la calma e impelagandosi in mille scuse e giustificazioni accusa Montale di quella sua gaffe, di quella “imperdonabile tragedia”».
Questa allegra storiella ci riporta da vicino il carattere simpatico e imprevedibile del gran lombardo, a cinquant’anni esatti dalla sua scomparsa. Di siffatto scrittore, tra i più grandi del Novecento europeo, presso Adelphi sono in corso di ripubblicazione tutte le opere (le ultime, in ordine cronologico, sono Quer pasticciaccio brutto de via Merulana nella collana «Gli Adelphi» e il Giornale di guerra e di prigionia nella «Biblioteca Adelphi»). Tre sono probabilmente i libri “imperdibili” di Gadda: Eros e Priapo, il Pasticciaccio e, ovviamente, La cognizione del dolore. Sono testi caratterizzati da uno sfondo particolare, un sommerso fil rouge: il descensus ad inferos dell’Italia nel ventennio fascista. Ma andiamo con ordine.
Pubblicato nel 1967 e solo recentemente riportato alla fisionomia originaria grazie alla scoperta dell’autografo risalente al ’44-’45, Eros e Priapo è un saggio di psicopatologia delle masse a carattere freudiano, scritto tuttavia con l’inconfondibile fervore stilistico di Gadda (della continiana «funzione Gadda», un idioletto pasticciato e «caleidoscopico», scapigliato gnommero mistilingue), la cui disarmonicità stilistica à la Folengo pare già di per sé legata all’idea di un joyciano e multiforme oltretomba. Un mondo babelico e fanatizzato, virgilianamente connotato di ombre sdegnose e di «finte furie di scacarcione sifoloso», mondo al quale comunque l’Ingegnere, con puntuti riferimenti alla storiografia svetoniana e tacitiana e soprattutto con la precisa linearità topografica dell’antico, adatta la «tonitruante logorrea d’un sudicio Poffarbacco»: l’epoca del duce rappresenta così la vera e propria umana caduta della coscienza collettiva nella guazza, nella dantesca Giudecca, nella «bestiaggine» catabatica. E, mentre tenta di «notificare» l’aspetto oscuro di tale coscienza con una puntigliosa quanto esacerbata trattatistica barocca, Gadda riesce persino a intravedere sin dalle primissime pagine il barbaglio del riscatto.
La caratterizzazione acherontica è presente in maniera similare anche nelle atmosfere del Pasticciaccio, ambientato a Roma nel ’27. Il commissario Ciccio Ingravallo, originario del Molise, è chiamato a indagare su due casi, probabilmente collegati, avvenuti in pochi giorni nello stesso palazzo in via Merulana: il furto di gioielli alla contessa Menagazzi e l’omicidio di Liliana Balducci, amica di Ingravallo, della quale il commissario era segretamente innamorato. Anche qui la lingua di Gadda è un pastiche ad alta concentrazione, con una presenza forsennata di dialettismi ed espressioni gergali, talora mediate dai tecnicismi di riflessioni sociologiche che ricordano Eros e Priapo per la loro incidenza infera.
Opere evidentemente collegate fra loro, alle quali Gadda comincia a dedicarsi seppur in forma embrionale tra il ’44 e il ’45, Eros e Priapo e il Pasticciaccio presentano in sostanza l’ineludibile movimento simbolico-metaforico del riuso: il ventennio è come una discesa infernale; dopo di esso bisogna risalire. Lo segnala il vocabolario gaddiano (a proposito: si consulti il Gaddabolario, a cura di Paola Italia, Carocci), fortemente orientato alle micidiali e graveolenti atmosfere stigie: «scure», «inferno», «funeraria minaccia», «vento», «tromba d’aria», «polvere».
In egual modo, La cognizione del dolore, apparsa in lunghi stralci su «Letteratura» dal 1938 al 1941, poi in volume nel ’63 e nel ’70, ambientata nello stato del Maragadàl in un Sudamerica fantastico, è principalmente la storia del rapporto tormentato tra Gonzalo Pirobutirro e sua madre: ma anche qui in controluce si può scorgere l’ombra dell’Italia sprofondata. La cornice è, dunque, la stessa: tuttavia in uno dei capitoli più noti dell’opera, il primo della seconda parte, segnato dalla scansione anaforica dei capoversi «vagava nella casa», la madre del protagonista assume su di sé la condizione infera, sempre più sola e calata nella personale «cognizione del dolore». Aspettando lo sfarfallio della risalita.
Di
| Adelphi, 2014Di
| Adelphi, 2021Di
| Adelphi, 2018Di
| Adelphi, 2021Di
| Adelphi, 2019Di
| Garzanti, 2007Di
| Garzanti, 2007Di
| Adelphi, 2013Di
| Adelphi, 2013Di
| Adelphi, 2023Di
| Adelphi, 2023Di
| Adelphi, 2016Di
| Adelphi, 2019Gli altri approfondimenti
Hai domande, dubbi, proposte? Vuoi uno spiegone? Scrivi alla redazione!
Conosci l'autore
Per poter aggiungere un prodotto al carrello devi essere loggato con un profilo Feltrinelli.
Per poter aggiungere un prodotto alla lista dei desideri devi essere loggato con un profilo Feltrinelli.
Il Prodotto è stato aggiunto al carrello correttamente
Il Prodotto è stato aggiunto alla WishList correttamente