Buzzati non piace quando va di moda la letteratura dell'impegno, per la sua scelta di letteratura fantastica, volta a temi esistenziali. E quando va di moda lo sperimentalismo, perché non è abbastanza elaborato, si rifiuta di essere difficile
Qualcosa di oscuro e segreto incombe sulle nostre vite.
È lì, lo percepiamo, lo possiamo quasi toccare ma non si materializza mai. Ci osserva nel buio, dall’alto come le nuvole che passano la notte. Si nutre di figure arcaiche, di occultismo, di intuizioni, di sogni premonitori. È il risvolto inquietante del reale che fino dalle sue prime opere, e con poche eccezioni, ha caratterizzato il mondo fantastico di Dino Buzzati.
Racconti e romanzi il cui fascino ampiamente riconosciuto si ritrova anche nelle sue pitture, anzi, ancor più nelle sue pitture.
Buzzati si definiva «un pittore prestato alla scrittura», affermava che «dipingere non è un hobby, ma il mestiere, semmai l’hobby è scrivere».
La carriera di Dino Buzzati Traverso pittore inizia negli anni Venti e si definisce con la scoperta del Surrealismo, il riferimento a Giorgio de Chirico e gli echi magrittiani. Un percorso che proseguirà fino al celebre Poema a fumetti (1969), in cui è riassunta l’anima artistica di Buzzati, e che «porta con sé le influenze della Pop Art, oltre che di riviste e fumetti erotici, in voga negli anni ‘60 oltreconfine».
Il mix tra letteratura e arti visive è stato sempre il tratto portante della creatività di Buzzati, della sua opera densa di riferimenti incrociati. Un surrealismo narrativo, opprimente nel merito ma leggero nella forma, che negli anni muta in una scrittura del reale, quando, come si diceva, la sua visione artistica è influenzata dalla Pop Art.
È del 1945 La famosa invasione degli orsi in Sicilia, racconto illustrato per bambini, primo esempio completo di commistione buzzatiana fra letteratura e arti visive.
I racconti di Buzzati – forse i suoi lavori più attuali e significativi - celano sempre un lato oscuro. Testi semplici, trame quasi banali, che lentamente assumono tratti allucinatori, facendo esplodere le insicurezze umane senza usare alcun detonatore.
E Buzzati confessò: «Sono un verme»
Così si intitola un articolo di Oreste del Buono apparso su La Stampa nel 1992, il racconto di un episodio curioso. «Quando un pomeriggio del 1963 Dino Buzzati presentò alla libreria internazionale Einaudi a Milano il suo romanzo Un amore, una signora azzardò una domanda che poteva suonare come una protesta per un tradimento subito: “Come ha potuto lei che ha scritto un romanzo come II deserto dei Tartari scriverne uno come Un amore!”. La signora appariva, più che emozionata per la propria audacia, addolorata per la sorte dello scrittore evidentemente amato. Ma Dino Buzzati non batté ciglio, raccolse candidamente la sfida, dichiarando: “Perché io sono un verme”. Il povero Vando Aldrovandi che dirigeva la libreria e tutta la gente, il loro palese stupore e, in contrasto, quell'atteggiamento di Dino Buzzati così distante un poco da tutti, quasi provenisse da un altro pianeta con usi e costumi diversi.»
Giornalista, scrittore e militare
Nato nel 1906 a Belluno e cresciuto a Milano, Buzzati può ormai essere annoverato tra gli “autori italiani classici”, eppure leggendo Barnabò delle Montagne (1933) o Il segreto del bosco vecchio (1935) non si percepisce affatto che siano frutto degli anni Trenta del Novecento e che Il deserto dei Tartari (1940) sia figlio dei prodromi di quella che l’autore ancora non sapeva sarebbe stata una guerra così devastante.
Un grande scrittore è uno scrittore senza tempo. E per molti aspetti Buzzati lo è. Ma nello stesso momento - scrittore di contraddizioni e destinato a una memoria collettiva contradditoria – non lo è.
Già 25 anni fa Giorgio Calcagno lo definiva «amato dai lettori ma dimenticato dai critici». Spesso non incluso nelle antologie del Novecento, Buzzati è stato considerato “minore”, un tassello non fondamentale nella costruzione della letteratura italiana: Paolo Milano si scandalizzava perché in Polonia gli avevano citato Buzzati, «un autore così basso»; Contini lo escluse addirittura dalla sua «Italia magica»; Asor Rosa nella sua Letteratura italiana non lo nomina neppure; Guglielmi lo considera un autore secondario, ed è quasi sempre assente dai manuali scolastici. Per gli intellettuali degli Anni ‘60 e ‘70, Buzzati è un autore borghese, fuori dalla storia. Eppure è stato uno dei più letti in Italia.
La sua eleganza era fatta di discrezione. Una volta gli avevano chiesto dove volesse arrivare: “A carpire alla vita qualche segreto - aveva risposto - magari piccolissimo”. Per lui equivaleva carpirlo alla morte
Figlio e nipote di storici collaboratori del Corriere della Sera, laureato in legge e poi brillante militare, era approdato a sua volta al Corriere a luglio del 1928. Il primo giorno della sua vita in via Solferino aveva annotato nel diario: «Oggi sono entrato al Corriere, quando ne uscirò? - Presto, te lo dico io, cacciato come un cane».
«Uno dei più straordinari estensori di cronaca fu senza dubbio Dino Buzzati...» scriveva Gaetano Afeltra. Tra le due ‘caste’ che componevano la cronaca, gli estensori e i reporter, Dino Buzzati era stato assegnato alla prima. La mansione di estensore è scomparsa da anni dal giornalismo italiano. Rappresentava una sorta di discriminazione qualitativa tra chi batteva ogni giorno la città in cerca di notizie e voci, e chi tranquillamente in ufficio era incaricato di scrivere quelle notizie e voci, «mettendole nel migliore italiano possibile».
Cretinetti scrive un romanzo
Ancora Oreste del Buono, ricordava quell’annuncio che Orio Vergani, collega di Buzzati al Corriere, aveva fatto in redazione con incredulità: «Sapete che Cretinetti scrive un romanzo?». Quel Cretinetti «non era affatto dispregiativo», ma si riferiva al nome d'arte con cui era stato ribattezzato in Italia il comico del cinema muto francese André Deed, protagonista di brevi film come ‘Cretinetti alla guerra’, ‘Cretinetti re dei poliziotti’, ‘Cretinetti e le donne’ che avevano spopolato prima dell'avvento delle comiche americane. «Certi estri, certi mutismi, certi stupori dell'elegante, compito e persino cerimonioso Dino Buzzati capace addirittura di indebitarsi per aiutare i più bisognosi sapevano un poco della comicità stralunata di André Chapuis». Il romanzo di cui parlava Vergani, raccomandato all'editore Treves dal capocronista Ciro Poggiali, era «Bàrnabo delle montagne».
Proprio nelle lunghe ore di attesa alla redazione del Corriere della Sera con il collega Emilio Radius [padre del musicista Alberto Radius, ndr.] aveva immaginato la medesima attesa angosciante e infinita del tenente Giovanni Drogo nella Fortezza Bastiani de Il deserto dei Tartari. Un’attesa non del nemico, ma della grande occasione che forse non sarebbe mai arrivata, mentre il tempo spazzava via i sogni e le speranze giovanili. Trasportare il protagonista dall’ambito giornalistico a quello militare (che del resto conosceva molto bene essendosi distinto nelle campagne d’Africa orientale) era stata la scelta migliore per amplificare, con la rigida disciplina e le attività ripetute in modo identico giorno dopo giorno, quell’angoscia esistenziale profonda.
In qualche modo simile concettualmente è la storia di Antonio Dorigo, l'architetto di mezza età protagonista di Un amore (1963), condannato a diventar succubo di una ragazzina-squillo incontrata in una casa d'appuntamenti e furiosamente da lui amata sino alla rovina totale.
Scritto a pochi anni di distanza dalla Lolita di Nabokov, racconta un’altra storia e un’altra esistenza rispetto alle trame precedenti, quasi fosse frutto di un nuovo e diverso autore. Ma al contempo ritorna su quell’angoscia esistenziale, sull’incombere di un indefinito male che tutti prima o poi coglierà che è certamente il tratto riconoscibile, il fil rouge della sua opera, che vedeva la parola fine il 28 gennaio 1972.
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