Allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dal gruppo per vaghezza dell'ignoto o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo, il mondo da pesce vorace com'è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui
Il mondo è un pesce grosso, vorace, pronto a divorare chiunque non sappia stare alle regole del gioco. Lo sapeva bene Giovanni Carmelo Verga (Catania, 1840-1922) di cui il 22 gennaio ricorrono i cento anni dalla morte: se l’alta società, grazie a istruzione e ricchezze, può permettersi di ambire a sempre di più, questo non vale per la fascia dei più deboli, i poveri, gli ultimi. Per tutti costoro è importante essere uniti per sopravvivere al mondo, uniti e protetti nell’ambiente dove sono nati e cresciuti, nei meccanismi e nelle tradizioni ataviche a loro note. Guai a voler progredire, guai ad andare alla ricerca del cambiamento, spinti dall’ambizione. Gli ultimi devono comportarsi come le ostriche, ben salde al loro scoglio, immobili ai mutamenti.
Questa la convinzione espressa nell’ideale dell’ostrica verghiano. Crudele, dite? No, semplicemente realistica, aderente alla visione darwiniana della società: sopravvive il più forte, il più adatto. La società avanza come una “fiumana” verso il progresso (del quale non vi è alcuna visione positivista), schiacciando inesorabilmente tutti coloro che non hanno gli strumenti per tenere il passo. A Giovanni Verga interessava questo, raccontare le condizioni reali, sociali ed economiche, degli ultimi, dei vinti di quella lotta quotidiana che è la vita. Proprio così si doveva intitolare il progetto letterario (ispirato al ciclo dei Rougon-Macquart di Zola) che avrebbe dovuto comprendere cinque romanzi, Ciclo dei vinti (inizialmente il titolo avrebbe dovuto essere “Marea”, a simboleggiare proprio la fiumana che prima o poi sommerge tutti: anche i vincitori momentanei saranno vinti dal progresso che avanza). Il tema comune del corpus letterario era, appunto, la lotta dell’uomo per l’affermazione, per il progresso, e l’inesorabile sconfitta, qualsiasi fosse la classe sociale iniziale di appartenenza e doveva essere così composto: I Malavoglia, in cui l’autore metteva in luce la lotta per la sopravvivenza; Mastro Don Gesualdo, incentrato sull’ambizione al miglioramento del proprio rango sociale; La Duchessa di Leyra, rappresentante l’ambizione aristocratica, e infine L’onorevole Scipioni e L’uomo di lusso, che avrebbero dovuto incarnare rispettivamente l’ambizione politica e quella artistica. Solo i primi due romanzi verranno portati a termine, il terzo rimarrà incompiuto e gli ultimi due nemmeno iniziati.
I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, la Duchessa de Leyra, l'Onorevole Scipioni, l'Uomo di lusso sono altrettanti vinti che la corrente ha deposti sulla riva, dopo averli travolti e annegati, ciascuno colle stimate del suo peccato, che avrebbero dovuto essere lo sfolgorare della sua virtù. Chi osserva questo spettacolo non ha diritti di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori dal campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà, com’è stata, o come avrebbe dovuto essere.
Verga sottolinea come chi racconta questa realtà debba limitarsi ad osservarla e narrarla nelle sue caratteristiche senza giudizio alcuno: su questa base si fonda tutto il suo stile narrativo e lo stesso movimento letterario del Verismo, nato in Italia tra il 1875 e il 1895, avente lui e Luigi Capuana come massimi esponenti. Il Verismo aveva le sue radici nel Naturalismo di origine francese, di cui Émile Zola fu il più grande interprete. Il filo conduttore era il proposito di scrivere delle reali condizioni sociali ed economiche degli umili che se in Francia, economicamente più industrializzata, erano principalmente i componenti del proletariato urbano, in Italia erano rappresentati da contadini e i pescatori.
Al centro della narrazione sta la "Provvidenza", la barca più illustre della letteratura italiana, la più vecchia delle barche da pesca del villaggio. La vicenda ruota intorno alla sventura dei Malavoglia, innescata proprio dal naufragio della "Provvidenza" carica di lupini presi a credito. Si snoda così tutta una trama straordinariamente complessa che non abbandona mai lo svolgersi doloroso del dramma.
Verga nasce in una famiglia siciliana borghese, ma di tradizione nobiliare; può accedere a un’adeguata istruzione e viaggiare fuori dalla Sicilia, stabilendosi a Firenze e Milano, dove frequenta salotti e ambienti mondani. La prima fase della sua carriera di scrittore vede dunque romanzi di maniera, influenzati dal Romanticismo e dalla Scapigliatura, principalmente incentrati sull’alta società: da Amore e Patria a I carbonari della montagna fino a Una peccatrice, Storia di una capinera, Eva, Tigre Reale ed Eros, non possiamo ancora propriamente parlare di un Verga verista. È con Nedda (1874) che si apre la produzione letteraria verista verghiana, culminando poi con Vita dei campi, pubblicata dall’editore Treves, una raccolta contenente alcune delle sue novelle più famose (Rosso Malpelo, Cavalleria rusticana, Jeli il pastore, Fantasticheria, La Lupa) e con il già citato Ciclo dei vinti. Seguirono le Novelle Rusticane (fra queste, La roba, Malaria, Libertà), dove viene particolarmente sottolineato il divario tra Nord e Sud, Per le vie, Drammi intimi. La maggior parte dei suoi scritti sono ambientati in Sicilia, quella Sicilia arretrata e rurale che l’autore ben conosceva.
Questo volume comprende integralmente le prime, più celebri raccolte di Giovanni Verga, dagli esperimenti iniziali alle novelle siciliane (Vita dei campi e Novelle rusticane) e milanesi (Per le vie). Ogni racconto si regge sull'invenzione di situazioni e personaggi memorabili, scolpiti con uno stile teso e incisivo, in grado di cogliere la problematica sociale dell'ambiente contadino e cittadino, così come il fondo tragico della condizione umana.
Ma come rendere la verità di ciò che stava narrando, come fornire al lettore una fotografia del reale? Utilizzando particolari tecniche stilistiche, innanzitutto il principio d’impersonalità: l’opera doveva sembrare “essere sorta spontanea come fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore”; il narratore non è onnisciente e non esprime le proprie opinioni: il punto di vista è sempre interno, la narrazione è affidata a uno dei personaggi. In questo modo, i fatti non vengono deformati dall’interpretazione esterna dell’autore, ma resi nella loro veridicità, tramite le opinioni, le interpretazioni e i pregiudizi del mondo dei popolani, i protagonisti. Si attua così quella che viene definita “tecnica dello straniamento”. Possiamo notarlo, per esempio, nell’incipit di Rosso Malpelo: “Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riuscire un fior di birbone”. È chiaro che il punto di vista su Malpelo qui è quello limitato, rozzo e superstizioso della gente. La tecnica dello straniamento permette la presentazione di vicende che comunemente avrebbero una data interpretazione da un punto di vista completamente inedito. Anche il lessico adottato segue l’intento di rappresentazione fedele della realtà: la sintassi è povera, spesso anche scorretta, con l’obiettivo di rendere il linguaggio parlato dalla fascia bassa della società.
Con le sue opere Verga si inserisce in quel filone del romanzo sociale che va da Richardson a Dickens a Émile Zola, passando per Ignazio Silone fino ad arrivare a Steinbeck, solo per citarne alcuni. L’interesse e al contempo la denuncia sociale che traspare dai romanzi verghiani per le condizioni dei più umili non si traduce però in un’idealizzazione degli stessi e delle loro condizioni di vita, non vi è l’idea di un mondo rurale portatore di valori ancora genuini e costituito da brava gente e del mondo esterno che corre veloce verso il progresso, crudele e meschino. Tutto il mondo è crudele, dominato dalla lotta per la sopravvivenza: gli scritti verghiani sono impregnati di un radicale pessimismo verso la natura umana e i meccanismi della società: non vi è rimedio, l’uomo può solamente limitarsi a osservare il mondo per quel che è, ricordando che ogni cambiamento risulta vano. Qualsiasi legislazione non può impedire il costante affermarsi dello stato di natura, la condizione di homo homini lupus non è superabile.
A distanza di cento anni dalla sua morte, perché leggere Verga ancora oggi? Perché ci regala un affresco, una fotografia di un mondo che, forse, senza di lui non avrebbe potuto parlare, non avrebbe potuto essere raccontato ed arrivare fino a noi; per lasciarci travolgere da sentimenti di rabbia per la miseria, la cattiveria, l’ignoranza, riuscendo così, forse, a riflettere e capire anche le dinamiche sociali attuali, perché l’uomo non cambia e nemmeno i meccanismi che ne regolano sopravvivenza e affermazione. Infine, perché nelle sue opere non ci sono fronzoli, pietismi e illusioni, ma solo autenticità.
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