Questo non è un anniversario che passa attraverso la nascita o la morte di una figura che ha lasciato un segno nella storia, né si tratta di una di quelle date-gong che rimbombano come allarmanti moniti nella memoria scolastica (753 a.C., 1492, 1789 e via così): questa, di cui ci occupiamo qui, è una data-svolta che tale appare solo se illuminata da una luce accesa dentro le pieghe della storia, e, nella fattispecie, della storia della letteratura occidentale.
Milleseicentoventitré. Il 1623 è l’anno in cui, dopo molto disquisire e molto collezionare e collazionare documenti, esce il primo in-folio delle opere drammatiche di William Shakespeare. Trentasei opere che di lì a poco diventeranno trentasette.
Editorialmente parlando, l’opera di Shakespeare comincia lì.
Dopo l’epica del manoscritto vergato e magari corretto mentre gli attori sono già pronti a comparire sulla scena e di episodiche stampe in-quarto, Henry Condell e John Heminges, entrambi legati a Shakespeare dall’appartenenza prima alla compagnia dei Lord Chamberlain’s Men e poi a quella dei King’s Men, mettono mano alla redazione delle opere. L’in-folio, ovvero la stampa su fogli di stampa piegati una volta sola, dava forma a libri pesanti e voluminosi – veri e propri forzieri di scritture, e non v’è dubbio che quello di Condell e Heminges fu forziere per eccellenza.
Condell era stato un attore di valore, Heminges si era meglio distinto come impresario e direttore di compagnia. Essendo Shakespeare morto il 23 aprile del 1616, va da sé che si sia manifestata presto l’esigenza di raccogliere, ordinare e sistemare un materiale drammaturgico che sia l’uno sia l’altro conoscevano bene e di cui temevano, chissà: la dispersione? l’alterazione? Ci sono ipotesi in proposito ma è verosimile che Condell e Heminges fossero fra i pochi a possedere se non i manoscritti originali almeno delle attendibili copie di questi.
Al di là della redazione conservativa – va da sé che siamo lontani da un’edizione filologica – quello che Condell e Heminges fecero con il primo in-folio fu conferire istituzionalità e autorevolezza a un corpus di opere destinato a travalicare il confine della contemporaneità, raccogliendo dei testi (nell’in-folio mancano solo il Pericles e Two Noble Kinsmen) che erano stati spettacoli di successo ma ai quali mancava una trasmissibilità sicura, una solida compattezza, nonché una promessa di affidabilità e, in questo caso, l’opinione degli studiosi ha dovuto infine riconoscere al primo in-folio una attendibilità superiore a quella che a più riprese fu messa in discussione. Non solo: il primo in-folio è anche, consapevolmente o meno, l’attestato di identità con cui William Shakespeare arriva a noi come autore, malgrado l’oggettiva incertezza documentale della sua biografia, come poeta consegnato alla sua identità attraverso il “monumento” della sua opera.
L’esistenza di copioni circolanti era senza dubbio un dato di fatto, e la continuità delle opere di Shakespeare dal punto di vista performativo sarebbe comunque stata garantita. Che quei copioni fossero copie, rimaneggiamenti, o addirittura stenografie di teatranti intesi a rubare le battute durante le rappresentazioni non è leggenda; è soltanto – e per fortuna – un segno della popolarità e dell’efficacia delle opere. Secondo il decreto del 1557 della regina Maria I, il diritto d’autore passava attraverso la stampa degli stationers, i cartolai. In caso contrario (e il teatro era ancora una sorta di terra di conquista), la proprietà passava necessariamente attraverso la “chiara fama”: l’associazione di un’opera molto rappresentata a un nome produceva appartenenza e accresceva la statura (leggi pure: il valore commerciale) dell’autore.
Shakespeare ha comunque rischiato la leggenda e l’omerizzazione. Ci sono ancora bizzarri studiosi che ne moltiplicano l’identità, o ne vogliono una tutt’affatto diversa, che fosse magari una donna o un italiano – o magari Francis Bacon.
Per fortuna in quel 1623, mentre Giacomo I si avviava verso la sua demenza senile, Condell e Heminges lavoravano, insieme ai librai Edward Blount e William e Isaac Jaggard, nonché ai cartolai William Aspley e John Smethwick (che avevano pubblicato l’in-quarto di alcune opere del Bardo), per assicurarci la trasmissione dell’opera di William Shakespeare: Mr. William Shakespeares Comedies, Histories, & Tragedies, così il titolo. È il loro un lavoro che dura almeno tre anni, e non possiamo fare a meno di correre con l’immaginazione nella bottega della famiglia Jaggard e vedere il procedere di compositori, correttori e stampatori. Per una volta, l’adagio «tutto il mondo è un palcoscenico» suonava non in bocca al buon Jaques di As You Like It ma nelle inchiostranti officine di un’editoria ancora artigianale, dove i cosiddetti foul papers (le stesure manoscritte con inserti e note) salivano sulla scena della pagina a stampa. Più tardi e per tutto il Settecento, l’edizione dell’in-folio fu guida alle redazioni dei più agili in-quarto, che aprirono l’opera shakespeariana alla possibilità di un vero e proprio mercato editoriale.
Quattrocento anni dopo, rendiamo grazie a Condell e Heminges, fratelli in Shakespeare.
Di
| Garzanti, 2016Di
| BEAT, 2016Di
| Feltrinelli, 2013Di
| Feltrinelli, 2014Di
| Feltrinelli, 2013Di
| Feltrinelli, 2013Di
| Rizzoli, 2016Di
| Einaudi, 2021Gli altri approfondimenti
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