Non c’è autore, nato d’aprile, meno primaverile di Henry James. A meno che, alla maniera di Eliot, ci rassegniamo a una primavera crudele. Che si entri nell’opera sua dalla porta dei racconti o dei romanzi si finisce per accedere a quella crudeltà, o meglio a una crudele forma di reticenza. Malgrado i suoi multiformi teatri narrativi, la speranza di una possibile trasparenza che in essa ci guida finiscono per polverizzare in una nebbia ostinata, in una luce ostile alle forme che illumina.
James ha vissuto all’interno di un mondo esposto a trasformazioni epocali (l’essere stato a cavallo fra Otto e Novecento basterebbe per vederlo patire le vertigini del tempo) e ci è stato con una fermezza che solo le scosse psichiche della scrittura riescono a tradire. Siamo di fronte a uno scrittore che legge il gap fra il nuovo continente (in cui nasce e si forma) e il vecchio, che racconta lo scatto di indipendenza della donna americana e, insieme, il suo torvo fallimento, che cerca nelle ombre profonde dello spirito il brivido di una gestualità congelata e le nevrotiche infezioni di fantasmi. Siamo di fronte a uno scrittore prolifico.
Prolificità e reticenza possono convivere? Nel suo caso sì.
Henry James sembra quasi non esistere al di fuori della scrittura e persino la sua fisicità – imponente, quasi monumentale – è parte della contraddizione che emerge come un rigurgito dentro il labirinto delle sue storie, e dei suoi personaggi. Piuttosto che il rimosso (della sessualità, ad esempio, sulla quale tanta parte della critica si è esercitata) è il non detto a prevalere. La sua deliberata funzionalità strutturale. Ed è proprio il non detto il nodo scorsoio della fascinazione che l’opera sua produce, sia quando la tessitura dell’accadere è squisitamente gioco di caratteri (Le spoglie di Poyton, La fonte sacra, Gli ambasciatori) sia quando il mistero è esibito strategicamente (Il carteggio Aspern, L’altare dei morti, Giro di vite, il sublime La bestia nella giungla).
Henry James, che nasce il 15 aprile del 1843, si avvicina al romanzo quando la narrativa del diciannovesimo secolo – in Europa ma non meno negli Stati Uniti – è al culmine, e segnatamente al culmine di una attenzione per la realtà che coincide con una straordinaria capacità di leggere il tempo del mondo e di lasciarsi contaminare da una società in pieno sviluppo. Non è un caso che gli autori-chiave di James siano Balzac, Nathaniel Hawthorne, Ivan Turgenev.
Nell’80 esce Piazza Washington e nell’81 Ritratto di signora, due storie di donne che lasciano il segno e ben si iscrivono dentro il romanzo ottocentesco. Eppure, già in questa prima fase che lo vede conquistare il favore del pubblico lo vediamo lavorare su due figure femminili “incompiute”, la remissiva Catherine Sloper destinata a conquistarsi la dignità di esistere attraverso la rinuncia ai sentimenti, e la intraprendente Isabel Archer che dissipa la sua indipendenza (anche economica) obbedendo a una fedeltà senza contenuto nei confronti di un coniuge che è esteta freddo e rapace. Rinuncia, dissipazione, reticenza. Sono le sue donne che, per quanto illuminate da un’anima grande, devono chiudersi in una sorta di deliberata sconfitta.
Una delle porte dalla quale si accede a Henry James sono le donne, quelle che presiedono alla sua formazione e al destarsi predatorio della sua immaginazione: la dolcissima madre Mary Robertson Walsh, la sorella Alice, scrittrice ella stessa, ma soprattutto la ribelle e indomita cugina Minnie Temple, morta di tubercolosi a 24 anni. Da quel mondo che da New York si sposta alle accoglienti residenze (ampi portici, verande, giardino, l’oceano non lontano) di Albany e Newport, James assorbe la vivacità delle conversazioni, le aperture prospettiche verso la cultura europea, e soprattutto quel prezioso fluire di saggezze – ma anche di inquietudini – femminili, che filtra costantemente nelle sue narrazioni.
Minnie Temple torna in Daisy Miller (1878), in Ritratto di signora (1881) e soprattutto in Le ali della colomba (1902) come Millie Theale. Le donne – quasi sensori della scacchiera morale del nuovo secolo, ma anche doppi di squisita, esercitata sensibilità – tornano nei grandi romanzi della cosiddetta major phase (dal 1902 al 1904, La fonte sacra, The Ambassadors, La coppa d’oro) e soprattutto in alcuni racconti o romanzi brevi per i quali Henry James è, a ragione, ritenuto imprescindibile lettore dell’ambiguità, come Giro di vite e La bestia nella giungla. Henry James ci ha insegnato (e ci insegna tuttora) a stare sull’orlo degli abissi, a guardare nel vuoto attraverso la pienezza della vita sociale, a restare impassibili davanti alle forme discrete del male, drammaticamente protetti da ciò che non si può dire.
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