Ha trentanove anni Maria Grazia Cutuli quando muore per un attentato in Afghanistan, a Sarobi, sulla strada fra Jalalabad e Kabul. Con lei muoiono tre colleghi: lo spagnolo Julio Fuentes di «El Mundo» e due corrispondenti dell’agenzia Reuters, l’australiano Harry Burton e l’afghano Azizullah Haidari. L’attentato è opera dei talebani, il cui governo a Kabul è appena caduto.
Cosa sta accadendo? È in corso da sei settimane la guerra che il 7 ottobre Stati Uniti e Gran Bretagna hanno deciso di portare in Afghanistan, in reazione alla mancata consegna dei responsabili dell’attacco alla Twin Towers, dell’11 settembre. Ficca il naso, indaga e traccia le due rette parallele di quella che si delinea come una “sporca guerra”: da una parte Bush e le ragioni per cui ha voluto la guerra; dall’altra i talebani oscurantisti, signori e padroni di un territorio senza pace, nel quale sono soppresse anche le più elementari forme di libertà. La guerra che si è conclusa il 15 agosto 2021 con il ritiro delle truppe americane e la caduta di Kabul.
Quel giorno non cade solo una donna ma anche una certa idea di giornalismo, di un giornalismo che “vuole andare a vedere”, che va nei luoghi in cui i fatti si svolgono anche a costo della vita. Come scrive David Bidussa, nell’ultimo secolo l’inviato di guerra non si limita a descrivere la “guerra-battaglia” ma descrive la “guerra-sistema”: “mette a nudo i sistemi politici, le strutture economiche, le credenze culturali che intorno alla guerra si muovono e che definiscono il senso della politica”.
Maria Grazia Cutuli e i molti altri giornalisti che in questo ultimo mezzo secolo hanno provato a raccontare l’esperienza traumatica della guerra hanno capito che si tratta spesso di costruire una controinchiesta su violenza, affari, crimini, interessi. Una controinchiesta per chiedere che i responsabili rispondano a un’opinione pubblica ora informata.
Perché rischiare? Per fare il proprio dovere, quello di informare. Anche a costo della vita. Prima di Maria Grazia, abbiamo assistito a un’altra morte atroce in Africa, a Mogadiscio. Era il 1994 e nonostante l’esperienza sul campo, anche Ilaria Alpi e Miran Hrovatin trovarono la morte per le strade di Mogadiscio. Ilaria come Maria Grazia sentiva forte il dovere di informare: “è la storia della mia vita, devo concludere, devo fare, voglio mettere la parola fine”, aveva detto al suo collega Calvi mentre cercava di convincerlo a partire. “Così decise di affrontare quel settimo viaggio, l’ultimo”, scrive la giornalista Serena Marotta, “come Ilaria anche Maria Grazia ha insistito per restare in Afghanistan e raccontare ciò che aveva scoperto”.
Di
| Rizzoli Lizard, 2011Di
| Ali&No, 2011Di
| Il Mulino, 2020Di
| HarperCollins Italia, 2021Di
| Il Saggiatore, 2015Altri approfondimenti
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