Anniversari e ricorrenze

Natalia Ginzburg: perché leggerla ancora a trent'anni dalla sua scomparsa

Illustrazione di Asia Cipolloni, 2021

Illustrazione di Asia Cipolloni, 2021

Schiva e austera, ma anche attenta, sensibile e intuitiva, tormentata dall’insicurezza e al contempo volitiva, così era Natalia Ginzburg.
Soprannominata da bambina “Maria Temporala” per il temperamento scorbutico - come racconta nel suo scritto più celebre, Lessico famigliare - Natalia Ginzburg, nata Levi, diventerà una delle scrittrici di punta del Novecento italiano, nonché uno dei pilastri della casa editrice Einaudi.

Figlia del professore di biologia Giuseppe Levi e di Lidia Tanzi, Natalia nasce a Palermo nel 1914, cresce a Torino, in un contesto familiare e relazionale radicalmente antifascista, e muore a Roma il 7 ottobre 1991, trent’anni fa.

La vita professionale di Natalia è intimamente intrecciata a quella personale, il suo modo di essere si riflette nella sua scrittura: l’esperienza della guerra, il confino in Abruzzo e la tragica morte del marito Leone Ginzburg - torturato dai fascisti nelle carceri di Regina Coeli - hanno forgiato il suo carattere e contemporaneamente il suo stile narrativo, aderente al vero, asciutto e al contempo molto profondo.

Entrata a far parte della casa editrice Einaudi dopo la morte di Leone, Natalia stringe intensi legami con i collaboratori della casa editrice – da Pavese a Calvino, da Vittorini a Balbo – e ne diventa figura fondamentale, svolgendo lavori di traduzione, revisione, scelta dei testi, editing.

“Io non avrei potuto fare che un mestiere, un mestiere solo: il mestiere che ho scelto, e che faccio, quasi dall’infanzia. Io scrivo dei racconti, e ho lavorato molti anni in una casa editrice. Non lavoravo male, ma neanche bene. Tuttavia mi rendevo conto che forse non avrei saputo lavorare in nessun altro luogo. Avevo, con i miei compagni di lavoro e col mio padrone, rapporti d’amicizia. Sentivo che, se non avessi avuto intorno a me questi rapporti d’amicizia, mi sarei spenta e non avrei saputo lavorare più.”

“Il mio mestiere”, Le piccole virtù, Einaudi

L’intrinseco senso di inadeguatezza che mai la abbandona la porta a descriversi come una lavoratrice mediocre, opinione ben smentita da Giulio Einaudi, che la definirà “lettrice formidabile” e “coscienza critica della casa editrice”.

Il suo stile essenziale e fondato sul “dire la verità”, sull’attenzione al quotidiano, alle piccole cose, emerge in tutte le sue opere e anche nei suoi pareri di lettura. Così rispondeva a Rosita Fusé nel 1948, dopo la lettura di un suo manoscritto:

“Ci sono delle persone - lei e anch’io – che non sanno raccontare bene se non quello che conoscono a fondo: non sanno inventare se non su quanto è molto a portata di mano; altri scrittori riescono a inventare sul niente, ma è un altro modo di scrivere. Dei tipi come me o come lei non possono concedersi che degli angoli visuali molto piccoli.”

Questa attitudine a scrivere solo di ciò che si conosce a fondo non era considerata negativamente da Natalia: “Noi non possiamo mentire nei libri e non possiamo mentire in nessuna cosa che facciamo. E forse questo è l’unico bene che ci è venuto dalla guerra”. (“Il figlio dell’uomo”, Le piccole virtù, Einaudi)

Anzi, forse, dopo i tragici eventi vissuti da lei in prima persona e dalla sua generazione, questa era l’unica maniera di scrivere – e vivere – possibile:

“I nostri genitori e la gente più vecchia di noi ci rimprovera per il modo che abbiamo di allevare i bambini. Vorrebbero che mentissimo ai nostri figli come loro mentivano a noi. […] Vorrebbero che circondassimo di veli e di menzogne la loro infanzia, che tenessimo loro accuratamente nascosta la realtà nella sua vera sostanza. Ma noi non lo possiamo fare. Non lo possiamo fare con dei bambini che abbiamo svegliato la notte e vestito convulsamente nel buio, per scappare o nasconderci o perché la sirena d’allarme lacerava il cielo. Non lo possiamo fare con dei bambini che hanno veduto lo spavento e l’orrore sulla nostra faccia”.

“Il figlio dell’uomo”, Le piccole virtù, Einaudi

La “Corsara” – come l’ha definita Sandra Petrignani nel libro a lei dedicato - non lesinava ad affermare perentoriamente le sue idee: “Io non amo i romanzi difficili: è forse una mia limitazione. Ho sempre una gran paura che siano fintamente difficili, che l’oscurità sia creata di proposito per nascondere la povertà dell’ispirazione”.

Cresciuta circondata dai fratelli maschi e avendo lavorato in un ambiente prevalentemente maschile, fu femminile in un modo tutto suo, affermava di “voler scrivere come un uomo” perché le scrittrici “spesso, quando scrivono, non riescono a liberarsi dei sentimenti, non sanno guardare a sé stesse e agli altri con ironia” (da un’intervista di Oriana Fallaci.)

Mal sopportava, inoltre, la descrizione stereotipata di ciò che significhi essere donna, dando una propria visione dell’animo femminile, in particolare nel “Discorso sulle donne”, un racconto contenuto nella raccolta Un’assenza:

"Le donne hanno la cattiva abitudine di cascare ogni tanto in un pozzo, di lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro, e annaspare per tornare a galla: questo è il vero guaio delle donne. Le donne spesso si vergognano d’avere questo guaio, e fingono di non avere guai e di essere energiche e libere, e camminano a passi fermi per le strade con bei vestiti e bocche dipinte e un’aria volitiva e sprezzante; ma a me non è mai successo d’incontrare una donna senza scoprire dopo un poco in lei qualcosa di dolente e di pietoso che non c’è negli uomini, un continuo pericolo di cascare in un gran pozzo oscuro […]"

Timida e schiva, non amava raccontare di sé: le vicende nei suoi romanzi sono quasi sempre quelle altrui e anche in Lessico famigliare è una narratrice nascosta, che poco esprime delle sue emozioni.
Un breve ritratto di sé stessa ci è però offerto dall’esilarante confronto con la personalità del secondo marito, Gabriele Baldini, nel racconto "Lui e io":

“Lui non migliora, in me, l’irresolutezza, l’incertezza in ogni azione, il senso di colpa. Usa ridere e canzonarmi per ogni mia minima azione. Se vado a fare la spesa al mercato, lui a volte, non visto, mi segue e mi spia. Mi canzona poi per il modo come ho fatto la spesa, per il modo come ho soppesato gli aranci nella mano, scegliendo accuratamente, lui dice, i peggiori di tutto il mercato […]”

In uno dei suoi racconti più belli, riesce ad essere profonda e sincera con acuta ironia:

“Le sue furie sono improvvise, e traboccano come schiuma di birra. Le mie furie sono anche improvvise. Ma le sue svaporano subito; e le mie, invece, lasciano uno strascico lamentoso e insistente, noiosissimo credo, una specie di amaro miagolio. Piango, a volte, nel turbine delle sue furie; e il mio pianto, invece di impietosirlo e placarlo, lo fa arrabbiare ancora di più. Dice che il mio pianto è tutta una commedia; e forse è vero. Perché io sono, in mezzo alle mie lagrime e alla sua furia, pienamente tranquilla. Sui miei dolori reali, non piango mai”.

“Lui e io”, Le piccole virtù, Einaudi

Questo è solo un piccolo excursus che vuole dare un assaggio della personalità e dell’imperdibile capacità di scrittura di una delle donne al centro della scena culturale - e storica - del Novecento.

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