Il 28 aprile 1967 Muhammad Ali rifiuta di combattere nella guerra del Vietnam, dichiarandosi pubblicamente obiettore di coscienza e per questo viene arrestato, accusato di renitenza alla leva, privato del titolo di Campione del Mondo dei pesi massimi e della licenza per combattere sul ring da parte della Commissione Atletica dello Stato di New York. Una scelta di integrità e di coerenza coraggiosa, sotto tutti i punti di vista dato che prima di essere riabilitato passeranno oltre tre anni. Un rifiuto categorico verso una guerra giudicata imperialista, di rapina e genocida che non riconosceva come sua, tanto che le parole da lui pronunciate rimarranno scolpite: «La mia coscienza non mi permette di andare a sparare a mio fratello o a qualche altra persona con la pelle più scura o a gente povera e affamata nel fango per la grande e potente America. E sparargli per cosa? Non mi hanno mai chiamato negro, non mi hanno mai linciato, non mi hanno mai attaccato coi cani, non mi hanno mai privato della mia nazionalità (...). Siete voi il mio nemico, il mio nemico è la gente bianca, non i Vietcong, i cinesi o i giapponesi. Voi siete i miei oppositori se voglio la libertà, siete voi i miei oppositori se voglio giustizia. Siete voi i miei oppositori se voglio uguaglianza. Voi non mi sosterrete mai in America per il mio credo religioso. E volete che vada da qualche parte a combattere. Ma difenderete mai voi me qui a casa?». Un grido della coscienza, quindi, una coraggiosa scelta etica che gli costa il ritiro proprio negli anni in cui è al top del vigore fisico.
Subisce il linciaggio mediatico di gran parte della società statunitense che lo giudica un vigliacco, ma la sua battaglia lo rende un’icona nella controcultura degli Anni Sessanta e un simbolo per il popolo nero e per tutti gli oppressi della terra.
«No, non andrò a diecimila miglia da casa per aiutare a bruciare e assassinare un’altra nazione povera solo per conservare la dominazione dei padroni bianchi sui popoli di pelle scura in tutto il mondo (…) Mi hanno avvertito che prendere questa posizione metterà a rischio il mio prestigio e potrebbe farmi perdere milioni di dollari che guadagnerei come campione di boxe. Ma non disonorerò la mia religione, la mia gente e me stesso per diventare uno strumento per la riduzione in schiavitù di coloro che stanno combattendo per la giustizia, la libertà e l’uguaglianza.»
Nessun pugile può batterlo, solo la prigione lo ha fermato e quando riotterrà la licenza dirà: «Hanno fatto ciò che ritenevano giusto, e io ho fatto quello che pensavo giusto». Ali è un simbolo, diventa un’icona vivente: «Ci mandano a combattere guerre che non sono nostre».
Quanti incontri avrebbe vinto, quanti ricchi premi avrebbe intascato in quei tre anni?
Quando torna a combattere, i suoi incontri sul ring sono qualcosa di più e di diverso. Perché Ali lotta per l’uguaglianza e per i diritti civili, a tal punto che il filosofo Bertrand Russell gli scriverà in suo sostegno: «Nei prossimi mesi il suo governo cercherà indubbiamente di danneggiarla in tutti i modi, ma io so che lei si rende conto di parlare a nome della sua gente e degli oppressi di tutto il mondo. Cercheranno di spezzarla perché lei è il simbolo di una forza che non riescono a distruggere, cioè la ritrovata consapevolezza di un popolo deciso a non farsi più massacrare e degradare dalla paura e dall’oppressione. Lei ha il mio appoggio incondizionato».
La ribellione è divenuta rivoluzione e alla fine ha conquistato tutti. Ali è personalità sportiva, ma non solo, la sua battaglia per i diritti è battaglia per la dignità di tutti gli sfruttati, gli emarginati, di tutti i popoli in lotta contro l’imperialismo.
Ali ha vinto, ha vinto per l’umanità intera...
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