Immaginatevi un musicista con un nome curioso, Ottorino Respighi, che nel 1901 parte da Bologna e se ne va a San Pietroburgo, in Russia. Riempie la valigia di vestiti pesanti, mette nella custodia la sua viola – lo avevano invitato a suonarla, in orchestra – e sale su un treno. In Russia suona quasi tutti i giorni, perché è quello il suo lavoro, ma, poiché è anche un compositore, decide di andare a trovare il più grande insegnante di composizione che ci sia da quelle parti, Nicolai Rimskij-Korsakov, e riesce a studiare con lui, dandoci dentro.
Quando ritorna in Italia, Respighi ha imparato a scrivere per orchestra in modo meraviglioso; ma ha anche preso un gran freddo. Tanto che, quando gli propongono di scendere a lavorare a Roma, un po’ perché l’incarico è prestigioso e un po’ perché il clima della città è particolarmente gradevole, non se lo fa ripetere due volte e arriva di filato nella Capitale.
Qui scopre le antichità, il Colosseo, il Palatino, il Foro Romano. Ma è il paesaggio ad affascinarlo: adora la luce che fa scintillare gli alberi al mattino, il colore della città al tramonto. E così nel 1923 decide di scrivere un pezzo per orchestra, che intitola I pini di Roma, per descrivere le sue impressioni mentre alza gli occhi qua e là per la città.
Riccardo Chailly e la Filarmonica della Scala proseguono l’acclamata serie dedicata ai grandi compositori italiani. In questo album interamente dedicato a Ottorino Respighi troviamo un’attenta selezione di rarità del primo periodo accostate ai capolavori della maturità, i celebri Pini di Roma e Fontane di Roma.
Prima va a passeggio per Villa Borghese, il grande parco cittadino, e poiché lì è sempre pieno di bambini che giocano decide di inserire nella sua musica la melodia di una delle canzoncine che usavano allora, Oh quante belle figlie Madama Dorè (forse i vostri nonni la sanno ancora). Poi scende a visitare una catacomba, una di quelle sepolture segrete degli antichi Romani, e lo racconta con musica scura, cupa, affidata agli archi gravi – viole, voloncelli, contrabbassi – che rendono perfettamente l’idea del buio, rischiarata solo dalla luce di una tromba. Poi ancora risale sul colle del Gianicolo, dove è pieno di uccellini, e decide che nella sua musica si deve ascoltare anche il canto di un vero usignolo, tanto che lo registra e fa produrre un disco, apposta, che ancora oggi viene consegnato alle orchestra quando vogliono suonare questo pezzo. E alla fine arriva sulla via Appia, che attraversa in modo grandioso antichi monumenti, rovine, spazi aperti, e dunque la sua musica si riempie di bagliori, di energia, e fa quasi pensare a un esercito di legionari in marcia.
La cosa pazzesca è che, per descrivere tutto questo, Respighi non si inventa soltanto belle melodie e accordi raffinati: poiché in Russia ha studiato con il grande Rimksij Korsakov, sa scrivere per orchestra come pochi altri, in quel momento, e dunque la partitura de I pini di Roma si trasforma in un caleidoscopio sonoro, ricchissimo di timbri, di impasti, di effetti orchestrali che lasciano ogni volta a bocca aperta. In un certo senso Respighi lavora come un pittore, mescolando suoni su una tavolozza immaginaria; e per lui alla fine sono più importanti i colori sonori rispetto alle frasi musicali, conta di più il fatto che una melodia sia affidata agli ottoni anziché la scelta delle singole note, e il piacere fisico di ciò che arriva alle orecchie vale più del rispetto delle proporzioni.
Roma è meravigliosa, si sa; ma in Pini di Roma risplende come non le era mai capitato prima.
Di
| Sillabe, 2016Di
| Piemme, 2022Di
| EL, 2015Di
| Lapis, 2015Di
| Franco Cosimo Panini, 2016
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