Strade di carta

Libri che raccontano madri e figlie

Illustrazione digitale di Gaetano Di Riso, 2021

Illustrazione digitale di Gaetano Di Riso, 2021

È così da sempre. Forse fin da prima di discernere il senso. C’era chi collezionava conchiglie, chi profumi, chi mostri scomponibili. Io invece raccattavo parole. Appena una sonorità nuova sgorgava da una bocca oppure (poco più tardi) da una pagina, io ero lì, eretta come un’antenna, spalancata a quel nuovo vento.

Insomma, se le parole erano pioggia (e in casa mia ne grondavano assai), io mi proclamavo spugna, zolla riarsa, sete perenne.

Ovviamente non avevo mensole per esporre il frutto dei miei raccolti. Tranne quello che dicevo, il momento in cui lo dicevo. Il semplice atto di pronunciare alla luce. Per questo, da quando ho circa otto anni, se avessi avuto una moneta per ogni volta che qualcuno mi apostrofava con un tonante «Ma che te sei magnata un dizionario?» (come replicare che era il mio libro preferito?), credo che ora potrei ammobiliare casa con capitelli corinzi o settimini intarsiati con le impronte del Re Sole.

Trattasi di condizione cronica, intagliata nel sangue. E ancora oggi, quando scoperchio all’improvviso qualche termine che sa di ruggine e di abbandono, io riemergo alla pelle con la tipica espressione da estasi mistica. Perché ognuno, sotto il sonno di polvere, contiene il proprio miracolo. C’è una parola, però, una sola, che le racchiude tutte. Almeno per me.

Madre. Scatola di battito, scintilla e camino. L’origine di ogni possibile voce. Per chiunque ne abbia una.

Tra l’avere e l’essere madre passa il fiotto vermiglio del nostro viverci adulte. Anche quando scegliamo di non farlo, di restare al di qua di quello squarcio che non ci lascia più intere. Perciò, quando un libro s’incardina su questo nodo, che mi piacerebbe tanto scrivere maiuscolo perché è il solo modo che ho di pensarlo, la figlia (e libraia) che sono non riesce a sottrarsi. La figlia (e libraia) che sono sa benissimo che, per quanto pascolerà tra altri umori, in quell’orbita prima o poi dovrà tornare. Con un cuore satellite in cerca del suo pianeta.

Da parte di madre

di Federica De Paolis - Feltrinelli, 2024

È così che sono incappata nel libro Da parte di madre di Federica De Paolis (Feltrinelli), molto prima che approdasse in libreria. La conoscevo già. La sua lingua, diretta, spigliata, scattante. Generatrice di immagini sempre vivide, sempre pulsanti. Ed è con una di queste che si snoda l’avvio del romanzo.

C’è una donna. Una donna che è giovane e bellissima. Al centro di qualunque sguardo, di qualunque apparente facoltà di successo. Eppure, questa donna è un “eppure”. La vediamo a malapena, avvolta nella nebulosa costante del fumo che aspira, del fumo che emana, che rosicchia ogni sua attesa. E infatti è lì, annidata davanti a telefono sperando che trilli e la resusciti. Perché questa donna bellissima, bionda e procace, disinibita e vivace, non sa bastare a sé stessa.

Aspetta che il suo uomo la chiami, un uomo che non ama definirsi “suo”, che oscilla tra altre braccia, mentre lei finge di non curarsene troppo. Davanti a lei, dietro di lei, accanto a lei, c’è Federica, figlia unica e diversissima. Pigra, scostante, soggiogata da sempre ma poi sempre più stanca di quella donna così vittima dei suoi amori da non accorgersi quasi di nient’altro.

Federica che deve ammalarsi per ricevere le sindacali dosi di attenzioni, che assiste a metamorfosi di stile o di opinioni in cui la causa non le appartiene mai.

«Mia madre finalmente rideva, aveva dismesso la sua aura angelicata, si era fatta la permanente, indossava capi di spandex fucsia e giacche dalle grandi spalline. “Giocava” a fare l’estremista, la comunista, nella sua nuova cerchia di frequentazioni mentre io incarcerata nel mio silenzio e nella mia timidezza di bambina la osservavo nel suo nuovo entourage».

Paola rimbalza. E Federica con lei. Tra maschi e traslochi. Soprusi ed addii. Nel fruscio degli anni Settanta. Mentre Roma recita le sue danze sornione. Smaliziata e beffarda; molle e crudele. Federica cresce, si espande, dei chili che non le importa di assorbire, forse per corazzarsi da quell’enorme amare e non capire.

È un dirupo quello che non saprà sfamarsi.

La figlia si fa adulta e la madre si fa fragile. Il corpo cede, si sfarina e in pochi morsi la malattia divora tutto.

La libertà, l’avvenenza, i mattini che restano.

Tutto, tranne la dignità di quella donna addosso sino alla fine, ma che non vuole mai nominarla.

Anche quell’attimo sopravvive tra loro come qualcosa di ineffabile, il mistero di una donna stupenda e scalfita, destinata ad esistere nel solco immane del vuoto che scava. Nel respiro di una figlia che la restituisce al tempo, partorendo la sua memoria, facendosi madre di quella voce, di quella ferita che porta il suo nome.

«Morire non è facile. (…) Guardai le mani e le baciai: le sue mani avevano disegnato il mio mondo, mi avevano insegnato, accudita, rimproverata, tenuta in caduta libera. Le sue mani che fumavano, cucinavano, battevano sui tasti, strette tra le cosce, nei capelli (i suoi, i miei), sul volante. Le sue mani eleganti, le sue unghie con le lunule alte, l’indice destro biondo di nicotina, l’anello sottile sull’anulare. Le sue mani ferme. Le sue mani immobili».

Le furie

di Janet Hobhouse - Neri Pozza, 2019

In quella creatura che abbiamo abitato è impossibile affacciarsi senza sentirci escluse. Tutta quella vita che è stata anche la nostra comunque continuerà a sfuggirci.

È qui che si compie il salto. Essere stati dentro qualcuno e non riuscire a possederlo mai. E provare a parlarne per tracciarne un perimetro.

Lo fa ad esempio Janet Hobhouse nel suo unico romanzo-memoir chiamato Le furie (Neri Pozza). Anche lei è preda di una madre incantevole, incapace di invecchiare, ma anche di occuparsi lei, incentrata soltanto sulle sue cicatrici, sui suoi tremori, al punto da essere ispirazione e incubo, spettro schiavo di troppa bellezza.

Quel femminile ipertrofico si stende su di lei come un’atmosfera, su tutti gli uomini che incontra, sulla filigrana di ciascun inciampo. L'autrice non smette mai di farlo, si avvinghia a quella madre che scivola via, che è il miglior pavimento per tutti i suoi schianti. E non le rimane che contemplarne l'essenza, così intensa, così  vulnerabile: «aria di bambina graziosa, dodicenne, una bimba senza paure o responsabilità, risplendente della stessa piccola luce di innocenza tormentata che si intravede dietro la maschera di Marilyn Monroe, la stessa espressione dolce e confusa di fanciulla buona e gentile intrappolata nella polpa di una bellissima pesca che si ammacca facilmente».

O Caledonia

di Elspeth Barker - Bompiani, 2024

Una madre comincia da un ventre. Da quell’innesco che diventa persona, ma non è così scontato sentirsi accolti da quella carne che ci fa da tetto. Ci sono figlie per cui la madre rimane costantemente una meta irraggiungibile, inospitale. Succede a Janet, protagonista assoluta del romanzo  O Caledonia di Elspeth Barker (Bompiani). Primogenita di una lunga serie di nascite, Janet non riesce neanche una volta a riconoscersi nel proprio nido. Probabilmente ci è atterrata per sbaglio e per lei è molto più facile incantarsi sui rododendri o sui gatti selvatici, commuoversi per un piccione morente o un lamantino con gli occhi gonfi di pena.

Sua madre non è sua, ama solo i neonati e per questo continua a sfornarne mentre Janet cresce di sentimenti alieni e inafferrati: «Ma poi ecco l'estate, e un'estate rara, incantevole (…) Janet si scordò della sua condanna terrena e si alzava prima del giorno per cavalcare a pelle su per i sentieri erbosi attraverso i boschi fino alla brughiera (…) Era la prima persona al mondo; solo lei disturbava la rugiada».

Gli impudenti

di Marguerite Duras - Feltrinelli, 2024

La fame di madre spesso non si colma mai. La fauci schiumeggiano senza riposo, a chiedere briciole che sembrano stelle. Quella donna non ci ama mai come vorremmo. Sversa sospiri e carezze su qualcuno che non ci somiglia. E ci scandisce la certezza che non saremo mai il suo “abbastanza”. Che fare? Inseguire o scalciare? O forse fare tutto narrando.
È questa la cicatrice di Marguerite Duras, che ci ipnotizza con i suoi pugnali, con la magia di una scrittura meravigliosa ed efferata, esattamente come ciò che racconta.
Gli impudenti (Feltrinelli) è la confessione di un dolore irrisolto, lo slancio insaziato di meritare un amore ossessivo, di conquistare colei che dovrebbe essere partenza e non traguardo.
Quella di Marguerite è una madre disaffezionata alla lettura e al mestiere di scrivere di sua figlia, una creatura che «si sbarazzava di colpo delle cose e delle persone dopo averle amate con violenza, incapace di affezionarsi profondamente allo stesso oggetto». Un ennesimo essere imprendibile.

Tu non sei come le altre madri

di Angelika Schrobsdorff - E/O, 2017

Madre prigione e poi rifugio, la stessa che sentenzia che non bisogna aspettarsi niente, né dal cielo né dalla pancia che ci ha cullati. Sono madri difficili, che sanciscono una sfida senza scadenza. Ma a volte non è un male.
A volte quell'esempio così difforme, così poco allineato, ci stimola a non piegarci a ciò che sembra un obbligo.
Angelika Schrobsdorff ha proprio quel modello materno davanti a sé. Else vive la Germania di Weimar e promette a sé stessa di non accettare copioni immutabili. Vuole essere felice senza compiacere gli altri e vuole un figlio da ogni uomo che ama.
Tu non sei come le altri madri è un atto di devozione e rispetto verso una donna appassionata e mai spenta, che la Guerra strapazza e disillude, lasciando sempre inviolato il suo orgoglio.
La scrittrice ripercorre ciò che ignora. La sua giovinezza, la sua vitalità. Chi era quella donna che sarà nostra madre? E quanto pensarla solo figlia ce la renderà vicina?
«Quando ho conosciuto Else, mia madre, i suoi capelli erano color bronzo e forti come una criniera. Dava l’impressione di essere sempre spettinata, anche appena uscita dal parrucchiere. I suoi riccioli corti e folti non si lasciavano domare. E non erano l’unica cosa a non lasciarsi domare in lei».

La mia ricerca di parole e di storie, ovviamente, non può esaurirsi qui. Quindi so che mi nutrirò ancora. Che verrò ancora allattata di pagine.

E che Federica, Janet, Elspeth, Marguerite ed Angelika mi hanno reso una figlia meno sola. E una libraia più felice.

Le altre strade di carta

La posta della redazione

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I libri consentanei di Cristiana Saporito

Da parte di madre

Di Federica De Paolis | Feltrinelli, 2024

Le furie

Di Janet Hobhouse | Neri Pozza, 2019

O Caledonia

Di Elspeth Barker | Bompiani, 2024

Gli impudenti

Di Marguerite Duras | Feltrinelli, 2024

Tu non sei come le altre madri

Di Angelika Schrobsdorff | E/O, 2017

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