La redazione segnala

Di cosa ci parla lo sciopero della fame di Alfredo Cospito

Illustrazione digitale di Asia Cipolloni, 2023, diplomata al Liceo artistico Volta di Pavia

Illustrazione digitale di Asia Cipolloni, 2023, diplomata al Liceo artistico Volta di Pavia

Il tema della privazione della libertà e di alcuni suoi aspetti molto specifici è diventato cronaca quasi quotidiana da quando Alfredo Cospito ha iniziato, il 20 ottobre 2022, uno sciopero della fame per protestare contro l’ergastolo ostativo e il 41-bis, due regimi detentivi diversi tra loro cui è sottoposto.

Alfredo Cospito, appartenente alla Federazione anarchica informale – Fronte rivoluzionario internazionale (Fai-Fri), è in carcere dal 2012 a seguito di due condanne per aver sparato alle gambe del manager di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi, e per aver fatto esplodere alcuni ordigni, che non provocarono feriti, davanti alla scuola allievi dei carabinieri di Fossano.

Il 24 febbraio la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso dei legali di Cospito, condannandolo alla permanenza al 41-bis, nonostante i pareri favorevoli della Procura Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, della Direzione distrettuale Antimafia di Torino, del Capo del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria e della richiesta di revisione del Procuratore presso la Corte di Cassazione, Piero Gaeta. Leggeremo le motivazioni, ma già da adesso possiamo definirla una scelta ingiusta, esito di una battaglia politica che ha elevato Cospito a nemico pubblico contro cui mostrarsi severi e implacabili.

Cospito non è l’unico detenuto in Italia che, negli ultimi anni, ha utilizzato il proprio corpo come strumento di protesta. Lo sciopero della fame è abbastanza frequente nei penitenziari, così come lo sono molti altri gesti autolesionistici. Dalla pratica di tagliarsi a quella di ingerire batterie, dal cucirsi le labbra al provocarsi overdose con i farmaci, il corpo è uno strumento potente da utilizzare come megafono, quando la tua voce è ridotta a un soffio. Il fatto che alcune di queste proteste abbiano avuto l’esito estremo della morte per complicazioni derivanti dalla prolungata rinuncia al cibo, è quasi totalmente sconosciuto all’opinione pubblica.

Gabriele Milito, Sami Mbarka Ben Gargi, Carmelo Caminiti, Salvatore “Doddore” Meloni, sono alcune delle persone morte in carcere in anni recenti dopo aver intrapreso uno sciopero della fame. In questo caso, la protesta di Alfredo Cospito va oltre la rivendicazione personale e la sua azione è volta a contestare i regimi del 41-bis e dell’ergastolo ostativo nella loro generalità, non solo per chiedere che gli vengano revocati.

La materia è quasi sconosciuta, e spesso si tende a far confluire nell’espressione “carcere duro” entrambe le misure in realtà molto diverse, sia nelle motivazioni della loro applicazione sia negli esiti che queste hanno per le condizioni di vita delle persone cui sono destinate.

Il 41-bis è stato introdotto come norma temporanea nel 1992 per contrastare la criminalità organizzata dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, ed è diventata definitiva nel 2002. La creazione di sezioni separate destinate a questa tipologia di detenuti, con regole molto più restrittive rispetto alle sezioni “comuni”, aveva lo scopo dichiarato di impedire la comunicazione tra interno ed esterno, in modo che nessuno potesse, dal carcere, continuare a dirigere le proprie organizzazioni criminali.
Nel corso degli anni questa misura ha assunto sempre più una dimensione punitiva, le cui molte privazioni aggiuntive sembrano congegnate più per fiaccare la volontà di chi è sottoposto al regime, piuttosto che rappresentare un effettivo strumento di prevenzione dei collegamenti con l’esterno. I detenuti in 41-bis non possono, solo per fare degli esempi: tenere in cella più di qualche fotografia, avere con sé più di quattro libri, avere un computer, possedere più di 12 colori se vogliono dipingere.

Inoltre, è consentito un solo colloquio al mese con i familiari o, in sostituzione, una telefonata di 10 minuti. Solo due le ore d’aria concesse, passate in piccoli cortili spesso con grate a schermare il cielo, condivise con un massimo di altri tre detenuti scelti dalla direzione dell’Istituto in modo che appartenenti allo stesso gruppo criminale non comunichino tra loro. Queste sezioni si trovano spesso sotto il livello degli altri edifici del carcere, luoghi in cui la luce naturale non entra mai. E, nonostante ogni persona al 41-bis dovrebbe vedere la propria posizione rivalutata ogni due anni, è molto frequente incontrare storie di chi, al 41-bis, c’è stato fino al giorno stesso della scarcerazione.

Chi contesta la maniera in cui è stato interpretato questo regime negli ultimi anni si chiede: davvero queste misure hanno lo scopo esclusivo di impedire collegamenti con l’organizzazione criminale di appartenenza? Non si tratta piuttosto di un accanimento, che somiglia a un’afflizione gratuita e aggiuntiva?

Il 41-bis, in queste sue derive, è stato censurato da numerosi organismi internazionali, e anche la Corte Costituzionale è stata chiamata più volte a pronunciarsi sulla legittimità di alcune specifiche disposizioni. Da qui la definizione di “carcere duro” la cui immagine, anche culturale, richiama inflessibilità e rigore. Ecco perché, spesso, si confonde il 41-bis con l’ergastolo ostativo, disciplinato invece dall’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario. Per ergastolo ostativo si intende quel regime in cui non sono previsti benefici penitenziari – permessi premio, libertà condizionale, lavoro all’esterno – fino a quando la persona non “collabori con la giustizia”. La previsione di una detenzione senza speranza, in cui il principio costituzionale dell’articolo 27 secondo cui le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato” viene di fatto disattesa, è stata recentemente censurata dalla Corte Costituzionale. La pretesa di collaborazione, quand’anche fosse possibile, non può essere l’unico parametro con cui valutare la riuscita del percorso di rieducazione intrapreso e la revisione delle proprie azioni.

Nessuno sconto, nessun cedimento all’umanità, come se di questa parola dovessimo vergognarci quando è associata a qualcuno che ha commesso dei reati, anche spregevoli. È la cultura della vendetta che ha soppiantato la funzione pedagogica in carico a chiunque si trovi ad amministrare la giustizia. Arriva poi ogni tanto qualcuno, come Alfredo Cospito, che ci ricorda quanto invece di questi argomenti non dovremmo mai smettere di occuparci.

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