Indifferenti è un testo oggi noto e che a lungo è rimasto in sordina e che ha assunto una dimensione iconica attraverso la lettura pubblica che ne ha dato Giancarlo Carofiglio il 31 maggio 2010 al Teatro Quirino a Roma nell’ambito di Libri per la libertà una manifestazione pubblica proposta da vari editori italiani in risposta al Ddl intercettazioni.
L’iniziativa è aperta dall’intervento di Andrea Camilleri che così esordisce: «Oggi qui difendiamo la libertà di informazione ma in realtà rischiamo di non averla proprio più, l'informazione, nel senso che non ce ne sarà» cui poi segue l’intervento di Carofiglio che legge il testo di Gramsci e poi divenuto un classico attraverso un’operazione editoriale che proprio da quel testo prende il titolo Odio gli indifferenti.
I testi che compongono questa scelta si riferiscono all'edizione degli scritti di Antonio Gramsci curata da Sergio Caprioglio per Giulio Einaudi Editore, in particolare alla raccolta La città futura. Scritti 1917-1918 (1982).
Antonio Gramsci scrive Indifferenti insieme ad altri testi che raduna in un numero unico La città futura che cura da solo. Una pubblicazione che ha il formato di un giornale a quattro facciate composto da 15 testi (12 sono di Gramsci più tre brevi estratti da scritti di Benedetto Croce, Armando Carlini e Gaetano Salvemini). Indifferenti compare in prima pagina ed è il secondo articolo. Tutti e dodici i testi di Gramsci escono anonimi.
La città futura esce l’11 febbraio 1917.
Spesso è stato detto in questi anni come questo testo sia insopportabilmente non disponibile al compromesso.
Perché considerarlo un difetto?
Ricordiamo il contesto intorno.
Siamo alle soglie di molti atti che segnano il nuovo secolo:
È il Novecento, definitivamente.
In quella temperie Gramsci è uno dei pochi intellettuali giovani che una malformazione fisica ha tenuto lontano dalla trincea. Molti dei suoi amici sono stati richiamati, alcuni non torneranno. A Torino la fame, la stanchezza, le fabbriche con gli operai che ritornano a occupare il centro della scena. C’è la guerra con tutte le sue miserie, ma anche con tutti i problemi che iniziano a intravedersi. Occorre un occhio acuto per fissarli e uno sguardo lungo per dare loro un senso. Antonio Gramsci li ha entrambi.
Indifferenti
Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che vivere vuol dire essere partigiani.
Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.
L’indifferenza è il peso morto della storia. È la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall’impresa eroica.
L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; e ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costrutti; è la materia bruta che si ribella all’intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all’iniziativa dei pochi che operano, quanto all’indifferenza, all’assenteismo dei molti.
Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. Dei fatti maturano nell’ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa.
I destini di un’epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa.
Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta nell’ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente.
E questo ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile.
Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch’io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal male, combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano.
I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità.
E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti.
Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere.
Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia, il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto a ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.
Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrifizio; e colui che sta alla finestra, in agguato, voglia usufruire del poco bene che l’attività di pochi procura e sfoghi la sua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato perché non è riuscito nel suo intento.
Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.
Di
| Einaudi, 2014Di
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| Einaudi, 2007Di
| Carabba, 2008Di
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