Signore e signori ecco uno che sa colpire a bersaglio come me. Io lo faccio con i pugni. E che pugni. Lui con la voce. E che voce. Perché qui siamo di fronte ad un peso massimo. Come me. Io della boxe. Lui della musica
Con queste parole, in uno show televisivo di fine anni Settanta, Muhammad Ali, alias Cassius Clay, presentava Barry White. Due giganti. In tutti i sensi.
Sono trascorsi ormai 20 anni dalla sua prematura scomparsa, avvenuta a soli 58 anni in un ospedale di Los Angeles il 4 luglio del 2003, e ormai lo possiamo dire senza poter essere smentiti: nel Pantheon dei grandi della black music a stelle e strisce del Novecento, assieme a fuoriclasse del calibro di Marvin Gaye, James Brown (ne parliamo qui) e Michael Jackson, non può non esserci anche Barry Lee (così era registrato all’anagrafe).
Sì, proprio lui, il campionissimo del soul-pop versione confidenziale. Di più, il crooner della stagione d’oro delle discoteche.
Nell’immaginario collettivo della generazione boomer, di quella parte di ascoltatori che non ne voleva sapere niente del rock, Barry White è stato essenzialmente la voce dell’amore.
Scorporiamo i concetti. E iniziamo dalla voce. Il suo marchio di fabbrica. Una voce profonda, calda, corposa, baritonale e dannatamente sexy tanto riusciva ad ammaliar l’udito. Quasi ad accarezzarlo.
E pensare che lui, che pure attraverso la musica si è emancipato da una vita sulla cattiva strada nei sobborghi più violenti di South Central Los Angeles, non ci pensava proprio a diventare cantante. Gli piaceva da morire stare dietro le quinte, fare il talent scout.
Meglio ancora: il produttore. Che gioia quando la sua creatura, il trio di cantanti donne Love Unlimited (una di loro, Glodean Beverly James, sarebbe diventata in seguito la sua, amatissima seconda moglie), mise a segno nel 1972 la prima hit a sua firma con Walking in the Rain with the One I Love. Toccò il cielo con un dito.
Fu un davvero il caso a spalancargli le porte dell’Olimpo del pop. Un provino di tre canzoni da lui interpretate pianoforte e voce e pensate per le Unlimited arrivò alle orecchie dei suoi discografici. Tra questi c’era anche uno dei suoi futuri cavalli di battaglia: I’m Gonna Love You Just a Little More, Baby. I suoi capi rimasero a bocca aperta. Non sapevano che Barry White sapesse cantare. Si resero subito conto che nessuno avrebbe potuto cantare quei brani meglio di lui. Già, perché la star ce l’avevano in casa. Pardon, in studio.
Nel ’73 uscì il suo album versione solista I’ve Got So Much To Give. Un disco, trampolino verso vendite multimilionarie nel segno di un sound - sospeso tra soul e disco music -, davvero pirotecnico. Per quel mix azzeccatissimo di arrangiamenti sopraffini, gusto per l’orchestrazione e per l’originalissimo groove che avrebbe influenzato anche la prima scena rap.
La voce dell’amore, si diceva. Già, l’amore. Love era il suo mantra. Il suo chiodo fisso. La parola più ricorrente. A costo di fare la parte del re degli sdolcinati. Poco importa. La “lei” cantata e idealizzata da Barry White cantava doveva essere sempre sul piedistallo. La più amata. La più coccolata. La Venere da adorare.
Per altro quel gigante buono tutto impomatato, che quando si esibiva, cercava sempre il contatto diretto con il pubblico, in prevalenza femminile, è riuscito in un’impresa rimasta ineguagliata. Grazie alle sue canzoni d’amore, secondo un report citato all’epoca dal New York Times, tra il 1973 e il 1976 c’è stato un aumento delle nascite del 5%. Insomma, soprattutto Oltreoceano, in camera da letto mentre sul piatto girava una hit di mister White, le notti d’amore avevano davvero un qualcosa in più.
La carriera di Barry White è stato un saliscendi vorticoso. Niente di nuovo sotto il sole nella storia della musica. Ma anche quando l’America l’ha un po’ abbandonato, l’Europa è sempre rimasta dalla sua parte. Il buen retiro per i sussurri melodiosi del “signor Bianco”.
Una curiosità, infine.
Fa specie che il suo brano più famoso sia una suite strumentale, la lussureggiante Love's Theme, composta per la Love Unlimited Orchestra. È considerato il pezzo che ha aperto la strada alla disco music. Sembra una colonna sonora, è apparso in decine di pubblicità. Sì, lo conoscono tutti. È bene che si sappia che era ed è tutta farina del sacco di quell’omone nato in Texas nel settembre del 1944.
Un monumento del pop-soul.
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