La redazione segnala

Biennale di Venezia: a 50 anni dalla democratizzazione d'intenti

© Bojanikus - stock.adobe.com

© Bojanikus - stock.adobe.com

Secondo la storiografia, quello italiano è stato un “lungo ‘68”: cominciato a singhiozzo sulla scorta di quello francese, l’anno del sattelzeit, cioè dello spartiacque, matura tardivamente e i suoi grappoli si raccolgono nel momento chiave del dissenso nostrano, cioè il 1977. Nel mezzo, gli anni Settanta, altrettanto lunghi, lunghissimi, magmatici, in cui tutto è successo eppure tutto è restato immobile subito dopo.

Quando si dice che la modernizzazione culturale ha affiancato quella civile, si intende che l’esplosione creativa andrebbe considerata tra i fattori propulsivi e di pressione sui decisori politici, assieme all’attivismo e alla mobilitazione tradizionalmente intesa.

Eppure, quanta confusione, quanta doppiezza, quanta ambiguità! Nel sottobosco della contestazione, le radio libere, i videotape, la controinformazione e gli happening; e dall’altra parte l’arte “ufficiale” che non intende la massificazione come democratizzazione, bensì come fortunato sposalizio con il mercato e l’industria culturale. Si lambiscono gli eccessi: il piombo e l’avanguardia, la cultura popolare e il kitsch, in uno slegato sogno collettivo di adattamento e reazione.

E la casa delle muse per antonomasia, cioè la Biennale di Venezia, subì a suo modo il trauma di una rivoluzione transpolitica e culturale.

Anni Settanta. La Biennale di Venezia
Anni Settanta. La Biennale di Venezia Di Stefania Portinari;

La storia delle mostre di questa esposizione internazionale consente di creare cartografie di sguardi su protagonisti e momenti fondanti, ma anche di istituire raffronti attraverso lo specchio prismatico dell'arte contemporanea.

© Chris Lawrence - stock.adobe.com

Fondata nel 1895, passò sotto il controllo dello Stato Fascista con Regio Decreto nel 1930. Nel 1968, l’anno globale per eccellenza, la Biennale “poliziotta” fu oggetto della carica eversiva studentesca, cominciando il proprio percorso verso la ridefinizione dello Statuto nel quinquennio successivo.

Fu per la prima volta trasformata con Legge di Stato n. 438 nel luglio 1973: una rifondazione vera e propria che avrebbe concretato i propri effetti nell’edizione del 1974, esattamente cinquant’anni fa.

«La Biennale di Venezia», confermava Wladimiro Dorigo, «è istituto di cultura democraticamente organizzato e ha lo scopo, assicurando piena libertà di idee e di forme espressive, di promuovere attività permanenti e organizzare manifestazioni internazionali inerenti la documentazione, la conoscenza, la critica, la ricerca e la sperimentazione nel campo delle arti».

Si disse, forse semplicisticamente, che la Biennale smise di essere fascista.

Certamente, oltre a un aggiornamento rispetto all’ecosistema mediatico coevo, con l’introduzione del Settore della Televisione, fu istituito un Consiglio direttivo più “democratico”, composto ancora da membri del governo affiancati anche da enti locali e organizzazioni sindacali e di rappresentanza del personale. Andava rivista l’articolazione cencelliana degli organi direttivi che aveva causato una proposta sommessa rispetto alla capacità di scandalo (artistico, si intende) dei primi ottant’anni: bisognava superare la pratica degradante della spartizione partitica dei settori, e reintegrare intellettuali e artisti come Luca Ronconi e Vittorio Gregotti a prescindere dal loro schieramento e in favore del pluralismo.

Era stata fino a quel momento un aperitivo tra galleristi e produttori, in una logica festivaliera di competizione e mercanzia. Si trattò di un’evoluzione anche ontologica, esito di lunghe elaborazioni teoriche e critiche sul rapporto tra cultura e arte con la crisi – quindi lo sviluppo drammatico – della società contemporanea: La Biennale in quanto istituzione doveva rompere verticalmente col passato e stare nel presente.

Per questo cinquant’anni fa, la Biennale riscriveva la propria storia, affidando la presidenza a Carlo Ripa di Meana, politico socialista sensibile al tema della dissidenza, che interruppe le abituali attività della Mostra per dedicarsi all’alacre fase di riorganizzazione interna, con la sola eccezione di alcune attività dedicate al Cile, alle prese con il colpo di stato ai danni di Salvador Allende.

L’Istituto si prendeva del tempo per guardare dentro il mondo, coniugando la “fame d’arte” con la lotta all’inerzia burocratica e al clientelismo, in nome della co-gestione e della partecipazione.

Furono moltiplicati i laboratori di formazione, estesa la comunicazione e la promozione al di fuori degli addetti ai lavori; si cominciò a riflettere sulla mercificazione del prodotto artistico e persino sull’ecocatastrofe, nell’ottica di un’alleanza europea tra le città.

La performance assunse un’operatività che dipendeva dalla partecipazione esterna e dalla specificità dei territori: fu il teatro soprattutto ad assumersi questa funzione di viaggio antropologico e laboratoriale. Fu il teatro ad aggredire il presente ibridandosi con le altre arti, raccontando l’incubo della solitudine urbana, incarnando il sogno collettivo e annullando tutte le linee di confine tra le forme e tra le comunità, fino ad arrivare a fuggire da sé stesso.

Per questo Grotowski se ne andò per il suo Special Project nel Castello di Montegalda, e Ronconi a Marghera, e il Living invase Piazza San Marco. Bisognava, diceva Giuliano Scabia, incontrare la gente, modificare la messa in scena, renderla itinerante, narrare il quotidiano, andare ai margini dell’abitato e da lì riportare il Gorilla dentro il ritmo antropico della città.

Fu una lezione sul teatro e sul modo di intendere il nostro vivere insieme, quella degli anni Settanta.

Oggi cosa è rimasto? Se penso a Milano, che è la città che abito, ci sono performance site-specific che valorizzano i luoghi di arte e di bellezza, come nel programma FOG di Triennale Milano che ha occupato gli spazi di PAC e GAM con Stefania Tansini e Dewey Dell; c’è il pregevole Festival Immersioni 2024 del Piccolo Teatro per riqualificare le periferie tramite percorsi di convivenza e vicinanza tramite il linguaggio artistico, e tanto altro.

E tuttavia, Milano è una bolla e offre uno sguardo estremamente limitato: potremmo forse ambire, riflettendo su quella rivoluzione veneziana circoscritta, a moltiplicare i vasi linfatici del teatro italiano, con politiche culturali che contribuiscano a superare il carattere oligopolistico dell’offerta, con più volti, più proposte, più idee in tutto il territorio, sempre più nazionalmente gentrificato.

Ti potrebbero interessare

La posta della redazione

La posta della redazione

Hai domande, dubbi, proposte? Vuoi uno spiegone?
Scrivi alla redazione!

Chiudi

Per poter aggiungere un prodotto al carrello devi essere loggato con un profilo Feltrinelli.

Chiudi

Per poter aggiungere un prodotto alla lista dei desideri devi essere loggato con un profilo Feltrinelli.

Chiudi

Il Prodotto è stato aggiunto al carrello correttamente

Chiudi

Il Prodotto è stato aggiunto alla WishList correttamente