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Dylan Thomas, tra poesia e preghiera

Illustrazione digitale di Ilaria Coppola, 2023, studentessa alla Facoltà di Comunicazione all'Università di Parma

Illustrazione digitale di Ilaria Coppola, 2023, studentessa alla Facoltà di Comunicazione all'Università di Parma

Sono settant’anni dalla morte di Dylan Thomas, poeta gallese che ha lasciato una traccia indelebile nella storia della poesia del Novecento. Thomas è vissuto brevemente (nato a Swansea il 27 ottobre del 1914, morì a New York il 9 novembre 1953) e ha avuto un’esistenza caratterizzata da eccessi e sregolatezze.

La sua poesia è invece capace di una esattezza e di un rigore da metronomo, all’interno di una visionarietà prepotente. Si può dire insomma che la sua scrittura poetica accoppi eccedenza e puntualità, concentrazione e spazialità.

Il talento di Thomas fu precoce – esordì nel 1934 con Eighteen Poems – e, per così dire, purissimo. Il suo cioè fu un dono autentico e raro, coltivato con rara maestria.

Ciò che il poeta comunica al suo lettore è un universo, anzi, meglio, una vera e propria cosmogonia in continua progressione. La poesia di Thomas ci fa entrare in un orizzonte in cui nascita e fine sono connessi intimamente, sono anzi in tensione.

Tutto quello che accade qui e ora tende a un orizzonte a venire, assume verità ed evidenza all’interno di una profezia.

Con ciò siamo al cuore del segreto di quest’arte: salmistica, orante e insieme profondamente immersa nell’esistente, nella materia, essa illumina con squarci improvvisi il brulicare della vita cosmica, il tutto in fermento, in divenire. C’è spesso nella lingua del poeta un orizzonte temporale futuro, quello appunto dell’avverarsi dell’annuncio profetico.

Basta pensare a uno dei testi più celebri, E la morte non avrà più dominio, di cui vale la pena citare almeno la prima strofa, nella traduzione di Ariodante Marianni (Einaudi):

E la morte non avrà più dominio.
I morti nudi saranno una cosa
con l’uomo nel vento e la luna d’occidente;
Quando le loro ossa saranno spolpate e le ossa pulite e scomparse,
Ai gomiti e ai piedi avranno stelle;
Benché ammattiscano saranno sani di mente,
Benché sprofondino in mare risaliranno a galla,
Benché gli amanti si perdano l’amore sarà salvo;
E la morte non avrà più dominio.

Il termine di confronto dei Salmi può dirci qualcosa su una poesia che è pienamente incarnata e al tempo stesso visitata, cioè ininterrottamente ispirata.

Quel che il poeta celebra non è un altrove metafisico, ma piuttosto la piena realizzazione delle cose che sono, il compimento dell’ordine terreno, inscritto in uno sguardo totalizzante.

L’apocalisse di Dylan è la tensione dell’amore fino all’estremo limite della sua adesione alla terra. Pregare significa per questo poeta – e la sua è una poesia orante – consistere con tutto ciò che esiste, spasimare e soffrire e amare con le creature e le cose.

La rivelazione, se c’è, è intrisa di sapienza dell’essere, di presenza che non ammette vie di fuga, ma solo sprofondamenti, discese in verticale nel buio dell’origine. Orante è davvero questa parola poetica, anche nella sua assoluta immanenza, nel suo essere circoscritta a ciò che subisce il tempo, il limite, la morte: non si può non pensare alla serie di calligrammi intitolati Visione e preghiera, sul mistero della nascita, sul battesimo della luce per lo sconosciuto «barbaro bimbo».

Una genesi incessante si svolge davanti agli occhi del lettore, facendo sì che la poesia di Thomas avvenga continuamente.

Per il settantesimo anniversario della morte, Crocetti Editore sta per mandare in libreria una raccolta di sessantadue poesie, curate da Emiliano Sciuba (il titolo è Poesie inedite): esse completano il corpus dei testi di Thomas noti in italiano, integrando le traduzioni esistenti (oltre a quella di Ariodante Marianni, si ricordi l’altra, storica, di Roberto Sanesi).

In uno di questi componimenti il poeta sembra chiarire l’agone stesso tentato dalla sua poesia, che è sovrabbondante, sperimentale e insieme sacra.

E questo è vero, che non può vivere chi non
Seppellisce Dio in una tomba profonda
Per poi riesumarne lo scheletro,
Chi non distrugge e crea,
Chi nelle ossa non trova nuova fede,
Chi non dona la carne a costole e collo,
Chi non distrugge per creare la sua fede ultima.

Distruggere per creare, guardare per diventare visionari. Sono i paradossi intorno a cui arde il fuoco della poesia di Thomas, intorno a cui si ramifica un canto che dà l’impressione di crescere e di espandersi al ritmo dell’universo.  

La poesia di Dylan Thomas

Favole di cinema

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Poeta, scrittore e drammaturgo gallese. Nel corso di una vita straordinariamente intensa, per quanto breve, Dylan Thomas ha scritto poesie, saggi, sceneggiature, racconti (molti a sfondo autobiografico) e un dramma teatrale dal titolo Sotto il bosco di latte la cui versione radiofonica ha vinto il Prix Italia nel 1954.Figlio di un professore della grammar school di Swansea, Dylan Thomas mostra sin dall'infanzia i segni di una vocazione sicura. A soli vent'anni scuote l'ambiente letterario londinese con Diciotto poesie (Eighteen poems, 1934), nel quale afferma lo stile di una poesia naturale e istintiva, per quanto pervasa da un'inquietudine oscura.Insieme a un gruppo di giovanissimi poeti e scrittori, s'impone come alfiere di un cosiddetto "nuovo romanticismo", sorto in reazione all'intellettualismo e al classicismo di cui erano accusati Auden, e i poeti del suo gruppo. Al 1936 risalgono le Venticinque poesie (Twenty-five poems), cui seguono Il mondo che respiro (The world I breathe, 1939), e La mappa d'amore (The map of love, 1939) che comprende liriche e prose. Il libro che raccoglie le sue più note (e forse più belle) poesie è Morti e ingressi (Deaths and entrances, 1946). Le varie raccolte di poesie apparse tra il 1934 e il 1952 sono state poi ripubblicate nel volume di Poesie scelte 1934-1952 (Collected poems 1934-1952, 1952). Poco prima della morte pubblica Il medico e i diavoli (The doctor and the devils, 1953). Ricordiamo anche la sua produzione narrativa, il cui picco è forse il notissimo: Un ritratto dell'artista da cucciolo (A portrait of the artists as a young dog, 1940) e il radiodramma Sotto il bosco di latte (Under the milk wood) pubblicato postumo nel 1954. Dopo la sua morte è stata data alle stampe una raccolta di Lettere scelte (Selected letters, 1966), e Lettere a Vernon Watkins (Letters to Vernon Watkins, 1957). Fra le tante pubblicazioni postume: Quite early one morning (1954), Adventures in the skin trade (1955). L'originalità di Thomas sta nell'inconfondibile mélange di reminiscenze celtiche con stilemi che attingono a tutto quanto il Novecento ha prodotto sino a quel momento, e al recupero di tradizioni letterarie passate: i movimenti e le avanguardie, i surrealisti francesi alla visionarietà di Blake, alle metafore ardite dei metafisici del XVII secolo.

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