Ricordiamo tutti le parole della canzone Auschwitz di Francesco Guccini: «Io chiedo come può un uomo/Uccidere un suo fratello/Eppure siamo a milioni/In polvere qui nel vento/In polvere qui nel vento...».
Ecco, queste parole possono essere ricordate anche quando parliamo del genocidio avvenuto in Ruanda nel 1994, tra il 7 aprile e il 19 luglio. In meno di 80 giorni vennero trucidate dalle 500.000 al milione di persone con violenze e modalità inaudite; ed è per queste ragioni che è considerato uno dei più atroci massacri dell’età contemporanea.
Il 6 aprile 1994, l’areo che trasportava il presidente rwandese Juvenal Habyarimana e quello burundese Cyprien Ntaryamira fu abbattuto poco prima dell’atterraggio. In questo periodo, la maggioranza della popolazione era costituita dagli Hutu, mentre la popolazione Tutsi rappresentava circa il 20% del totale. I contrasti fra queste due etnie si erano accentuati negli anni, a causa del cattivo governo da parte dei colonizzatori, tedeschi prima e belgi dopo.
Nelle ore immediatamente successive all’ attentato dell’areo presidenziale, le milizie hutu iniziarono a «lavorare» (termine impiegato da Radio-Television libre – organo di informazione della fazione più oltranzista dell’estremismo hutu, considerato uno dei maggiori orchestratori del genocidio): a partire dal 7 aprile, gruppi armati formati dagli elementi della Guardia presidenziale, dalle forze armate rwandesi, e da abitanti delle città e delle colline si riversarono nelle strade all’inseguimento dei tutsi. Li uccisero sul posto, nelle loro case, nei campi o nei luoghi in cui avevano tentato di nascondersi o li obbligarono, con la scusa di proteggerli, a radunarsi negli stadi, nelle parrocchie, nelle scuole, e li sterminarono con armi da fuoco per poi finirli a colpi di machete. Uomini, donne, bambini, anziani, malati, tutti individuati grazie alle carte d’identità che, dopo la colonizzazione, menzionavano l’appartenenza etnica. Alcuni giorni, il bilancio delle vittime contò più di 8.000 morti, cioè 350 all’ora.
Il termine genocidio venne utilizzato per la prima volta nel 1944 dal giurista Raphael Lemkin in riferimento al massacro della popolazione armena a opera del popolo turco. Ma nel caso del genocidio del Ruanda si è arrivati a livelli di crudeltà inimmaginabili per la mente umana. Infatti, la pratica dei massacri avveniva secondo schemi piuttosto precisi: gli assalitori cominciavano con delle fucilate o gettando granate, dopo di che gli assassini arrivavano con il loro machete a «finire il lavoro», vale a dire finire i feriti. Quanto al modo di uccidere con il machete, questo poteva variare: si poteva cercare di colpire immediatamente gli organi vitali, oppure tagliare mani, braccia, gambe fino ad arrivare alla terribile morte per emorragia.
Parecchi sopravvissuti hanno potuto vedere con i loro occhi con quanta crudeltà gli uomini uccidevano la propria moglie o il proprio marito, gli amici o i vicini di casa. In molti casi le madri hanno visto mettere a morte i figli nei modi più brutali e impensabili.
Ci furono gravissimi ritardi da parte dell’ONU, che sarebbe dovuta intervenire immediatamente, visto il repentino precipitare degli eventi, ma soprattutto ci furono responsabilità enormi da parte dei governi belga e francese, che avrebbero potuto evitare, o per lo meno fermare, il genocidio.
Alla fine degli anni novanta una compagnia teatrale belga è riuscita a mettere in scena la storia del genocidio coinvolgendo anche alcuni superstiti, che hanno raccontato dal vivo quello che avevano visto i loro occhi. Il titolo dello spettacolo era Ruanda 1994. Une tentative de reparation symbolique envers les morts, a l’usage des vivants.
Lo spettacolo era anche un grido spaventoso verso le responsabilità del governo belga, che ha cercato di boicottare la compagnia, e contro le sedi arcivescovili e missionarie in Ruanda che sono rimaste silenziose davanti a queste atrocità.
Lo spettacolo durava ben otto ore e costringeva lo spettatore a rimanere incollato alla poltrona e a “vivere” il racconto di così tanta violenza. Si chiudeva infine con una cantata in ricordo di tutte le vittime dal titolo La cantate de Bisesero, che trovate qui sotto.
Sur la colline de Muyira
Couverte de forest et de buissons
Vivaient avant le genocide
De nombreaux hommes forts
MUYIRA MUYIRA MUYIRA
MUYIRA MUYIRA
MUYIRA MUYIRA MUYIRA
MUYIRA MUYIRA
Entre buissons et forets
Sur la colline de Muyira
Reste une poignee d’hommes
Une poigneee d’hommes
Qui maintenant meurent de
Chagrin
Di
| Terre di Mezzo, 2021Di
| Infinito Edizioni, 2016Di
| L'Asino d'Oro, 2014Di
| Edizioni La Meridiana, 2008Di
| Bollati Boringhieri, 2000Di
| Mondadori, 2018Di
| Marotta e Cafiero, 2019Ti potrebbero interessare
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