Non c’è mai stato un tempo in cui io non creassi frasi per trasformare le cose che avevo sperimentato, affinché diventassero coerenti e 'reali'
Il 31 luglio del 2012, dieci anni fa, Gore Vidal moriva a ottantasei anni per il complicarsi di una polmonite. Come ha ricordato Charles McGrath sul “New York Times”, Vidal apparteneva «alla rara categoria degli ingegni che sanno sempre mostrarsi all’altezza di qualsiasi compito si propongano: mirabili i suoi romanzi (ne ha pubblicati venticinque), eccellenti i volumi di memorie, lucidi e taglienti i saggi». Uno scrittore sempre addentro alle questioni politiche – era molto critico sull’imperialismo americano, per esempio – e che, in forza della propria omosessualità ostentata e mai dissimulata, propugnava un’idea di libertà individuale assoluta, purché non nociva.
Fazi ha in catalogo gran parte della sua opera edita in Italia. L’ultima pubblicazione è Impero, uno dei capitoli di quella storia (o anti storia) americana contenuta nella serie Narrative of Empires, insieme a Emma, 1876 e all'Età dell’oro. Una sorta di biografia romanzata di una nazione, che mette in tensione i principi dell’oggettività storica per schiacciarli sul punto di vista dell’autore: Gore Vidal faceva anche questo, piegava la storia al proprio volere. Infatti, Fazi ha fatto un gran regalo ai suoi lettori ripubblicando nel 2018 La statua di sale, il punto dove vorrei arrivare per rendere omaggio a Gore Vidal in questo decennale dalla sua scomparsa. Ma prima occorre fare un passo indietro.
Ironia della sorte, Eugene Luther Gore Vidal nasce nel 1925 a West Point, la capitale dello stesso militarismo che criticherà e combatterà lungamente. Suo nonno è un senatore dell’Oklahoma e con lui impara a conoscere i corridoi dove si esercita il potere e le pagine dove si crea la letteratura. Scrive il suo primo romanzo a ventun anni, L’uragano, mentre a quattordici incontra il suo primo grande amore. Si tratta di Jimmy Trimble, la sua «altra metà», conosciuta alla St. Alban’s School di Washington D.C. Jimmy è una promessa del baseball, il “Washington Post” riporta che nella sua breve ma brillante carriera ha già lanciato un no-hitter contro la Woodrow Wilson High School.
Dopo il primo incontro, Gore e Jimmy si perdono di vista per un po’, poi si ritrovano a diciassette anni e dopo poco partono per la guerra. Nello sbarco di Iwo Jima, l’altra metà di Gore è uccisa da un kamikaze giapponese, e qui si conclude la storia d’amore. Almeno in un senso puramente pragmatico. Nel 1948 Gore Vidal scrive, per l’appunto, La statua di sale, che è un commovente e coraggioso come se: come sarebbe, ora, il mondo se Jimmy non fosse stato ucciso? Di fatto, Vidal scrive un’utopia, uno scenario che non esiste né mai esisterà, perché Jimmy è stato ucciso. Ma credo che questa sua opera giovanile, che lo colloca in maniera irreversibile tra i grandi scrittori americani, sia il sunto di ciò che Gore Vidal è stato per tutta la sua esistenza. Eccentrico, sì, sopra le righe, e, soprattutto, utopista.
Gore Vidal credeva in un mondo diverso da quello che aveva sotto gli occhi. Che poi fosse migliore o peggiore, lui stesso l’avrebbe lasciato decidere alla storia, ma ciò che faceva ogni volta che polemizzava, inveiva o rilasciava un’intervista tagliente verso l’establishment americano, ecco, lui creava un’utopia. I suoi sono grandi romanzi perché lui era un grande creatore di mondi. Li fabbricava in ogni momento e con ogni mezzo, dava loro forma con la scrittura. Scese addirittura in politica: insomma fece tutto ciò che poteva per plasmare quel piccolo pezzo di storia che gli era concesso . Fallì in tutti i suoi tentativi, però. L’unico mondo che riuscì a piegare al suo assoluto e indiscusso volere fu la propria vita – arroccata su uno scoglio come la sua villa di Ravello, nella Costiera Amalfitana: intoccabile, inespugnabile e meravigliosa.
Quando gli occhi sono chiusi, comincia il mondo reale
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