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Dolly, la storia della prima pecora clonata in laboratorio 

Illustrazione digitale di Ginevra Sacchi, 2023

Illustrazione digitale di Ginevra Sacchi, 2023

Chi varca la soglia della sezione Explore nelle gallerie di scienze e tecnologia del National Museum of Scotland, a Edimburgo, ha l’occasione di trovarsi faccia a faccia con la pecora più famosa di sempre. Il corpo tassidermizzato di Dolly fa bella mostra di sé su un pannello trasparente che permette di osservarla da tutti i lati. Anche se, a essere obiettivi, all’apparenza è una normalissima pecora, simile a migliaia di altre normalissime pecore. Che c’è dunque da vedere?

In ogni epoca sono poche le notizie scientifiche capaci di gareggiare ad armi pari con le notizie di cronaca, di politica, di costume. Pochissime delle novità sfornate da laboratori e centri di ricerca riescono a penetrare il bombardamento di informazioni che ci investe ogni giorno e a colpire profondamente l’immaginario collettivo. Ancora meno sono le icone scientifiche, come, in questi anni, il buco nero m87* immortalato dall’Event Horizon Telescope o la grafica del nuovo coronavirus a forma di palletta ricoperta di uncini. Una di queste rarità è sicuramente la foto della pecora Dolly. Il bello è che i motivi per cui l’ignaro ovino conquistò allora le prime pagine dei giornali e l’attenzione di tutti noi non sono esattamente gli stessi per cui oggi, a 20 anni dalla sua morte, ci ricordiamo di lei.

Dolly è il primo mammifero mai clonato a partire da una cellula adulta. Questo significa che prima di lei ogni agnello sulla faccia della Terra era il risultato di un ovulo fecondato, oppure, negli anni immediatamente precedenti alla sua nascita, di una cellula prelevata da un embrione ai primi stadi di sviluppo. Dolly, al contrario, nacque come gemella omozigote di una pecora ben più anziana di lei.
Ian Wilmut, Keith Campbell e i loro colleghi ottennero l’embrione di Dolly fondendo una cellula mammaria di una pecora di sei anni con una cellula uovo - privata del nucleo - di una seconda pecora adulta.
L’ovulo così ottenuto fu poi impiantato nell’utero di una terza pecora.

Nessuno si aspettava che da questo processo potesse nascere un agnello, per via di una distinzione cruciale in biologia: ci sono le cellule germinali (ovuli e spermatozoi) e le cellule somatiche (tutte le altre). Le cellule germinali sono totipotenti, cioè possono differenziarsi in qualsiasi tessuto; quelle somatiche, invece, sono già specializzate nell’essere parte del fegato, o della pelle, o delle ossa, eccetera. Non c’era motivo di aspettarsi che una cellula mammaria - già parte di un tessuto preciso in un animale adulto - potesse comportarsi come un embrione, differenziandosi in tutte le cellule necessarie a fare una pecora intera. Dal punto di vista scientifico, la nascita di Dolly costituiva una scoperta eccezionale.

La straordinaria nascita non fu resa pubblica subito. Dolly nacque nel luglio del 1996 e la notizia uscì solo nel febbraio successivo, pochi giorni prima che Nature, la più importante rivista scientifica al mondo, pubblicasse l’articolo di ricerca che ricostruiva tutte le tappe e l’esito dell’esperimento. Quel che, lì per lì, più catturò l’immaginazione del pubblico e di buona parte degli scienziati fu l’idea del doppione: improvvisamente sembrava che nel giro di qualche anno avremmo preso a produrre gemelli su ordinazione, fatto rivivere animali domestici perduti o rimesso in circolazione controversi personaggi storici.

Così non è stato, ma non per questo la pecora Dolly è da considerarsi un incidente di percorso.
Nel 2012 il giapponese Shinya Yamanaka e il britannico John Gurdon, pioniere delle prime clonazioni di anfibi, ricevettero il premio Nobel per la medicina e la fisiologia “per aver scoperto che cellule adulte possono essere riprogrammate per diventare pluripotenti”, cioè capaci di generare diversi tessuti. Yamanaka racconta apertamente che senza Dolly non si sarebbe mai imbarcato in un’impresa scientifica che a priori gli sarebbe apparsa impossibile: prima che la pecora VIP venisse alla luce, nessuno avrebbe scommesso sulla possibilità che una cellula somatica desse luogo a un embrione. Fu proprio quella scoperta a fargli capire che trasformare una cellula adulta in una cellula pluripotente era, in linea di principio, possibile.

Perché nascesse Dolly ci vollero 277 tentativi. Clonare le persone è un’idea tuttora assurda e inverosimile; la clonazione umana è vietata ovunque, ma la ricerca sulle cellule staminali si può dire appena iniziata. Nei laboratori di tutto il mondo si lavora alla creazione di organoidi, cioè copie di organi umani che possano costituire fonte di tessuti e terreno di esperimenti: un’opportunità favolosa per la medicina rigenerativa.

Dolly, a dispetto della sua notorietà - ci fu perfino chi, negli Stati Uniti, pregò i ricercatori di metterla su un aereo per portarla in uno studio televisivo - ebbe una vita tranquilla. Visse sempre in Scozia: passava le giornate in compagnia del suo gregge al Roslin Institute, che l’aveva vista nascere.
Quando aveva cinque anni, però, soffriva già di artrite. In base ad altri sintomi osservati su diversi animali clonati, nacque il sospetto che la clonazione fosse correlata a invecchiamento precoce.

Il 14 febbraio di vent’anni fa Dolly, quasi sette anni, sei figli, fu sottoposta a eutanasia per un tumore ai polmoni di origine virale. Non è chiaro se la malattia fosse legata alla sua natura di animale clonato oppure no. Da allora sono stati clonati moltissimi altri mammiferi - topi, scimmie, maiali, cavalli, conigli e così via - ma nessuno di loro può vantare la fama, l’allure mediatico e la lanosa innocenza di Dolly.

Illustrazione digitale di Ginevra Sacchi, 2023

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