Non sono le montagne ciò che conquistiamo, ma noi stessi
Sono trascorsi 70 anni da quando il neozelandese Edmund Hilary e lo sherpa Tenzing Norgay salirono sulla vetta dell’Everest.
Era il 29 maggio 1953 e l’eco di quell’impresa straordinaria non si è ancora spento, non solo perché rappresenta il coronamento di un sogno per tutti gli alpinisti ma soprattutto perché incarna l’eterna sfida dell’uomo contro i suoi limiti.
Oggi il ricordo di quell’impresa assume un significato ancor più profondo perché la storia del gigante himalayano è indissolubilmente legata a uno dei temi più sentiti dei nostri giorni: il destino e la difesa dell’ambiente naturale.
Chomolungma per i tibetani, Sagarmatha per i Nepalesi, Everest per il resto del mondo.
La montagna più alta del pianeta ha sempre esercitato un fascino magnetico sui popoli che vivono ai suoi piedi e su coloro che giungono al suo cospetto: impossibile rimanere indifferenti di fronte al magnetismo di quell’immensa piramide di roccia, neve e ghiaccio, simbolo prepotente della forza della natura.
I nativi del luogo la considerano sacra e la chiamano Dea Madre dell’universo, noi occidentali l’abbiamo ribattezzata con il nome dello storico direttore del Survey of India, l’ufficio trigonometrico e geodetico incaricato nel XIX secolo di esplorare, mappare e misurare le cime del Subcontinente Indiano.
Da quando nel 1852 l’operatore Radhanath Sikdar scoprì che l’allora denominato Peak XV era la vetta più alta del mondo, la sua cima divenne la meta più ambita e partì la corsa alla sua conquista. Gli inglesi organizzarono i tentativi più arditi, tra cui la leggendaria spedizione del 1924 di George Mallory e Andrew Irvine, misteriosamente scomparsi.
Alcuni ritengono che i due siano stati i primi a raggiungere la vetta e siano morti durante la discesa ma non ci sono prove che lo dimostrino. Nel 1999 il ritrovamento del corpo di Mallory, conservato dai ghiacci, ha riportato alla ribalta la loro storia. Il famoso alpinista Reinhold Messner le ha dedicato un libro appassionante, a metà tra il romanzo e il saggio, La seconda morte di Mallory (Bollati Boringhieri, 2013) in cui fornisce la sua personale soluzione all’enigma.
Universalmente riconosciuto fu invece il successo della spedizione che si svolse nel 1953.
Alle ore 11.30 del 23 maggio Hillary e il suo compagno Tenzing Norgay salendo dal versante Nepalese raggiusero gli 8848 metri della vetta e vi rimasero per circa 15 minuti.
Lassù, al cospetto di un panorama mai prima ammirato, si congratularono con una stretta di mano tipicamente britannica e poi, secondo le loro stesse testimonianze, cedettero all’emozione con un abbraccio liberatorio. L’annuncio della salita giunse a Londra e al mondo intero il 2 giugno, giorno dell’incoronazione della Regina Elisabetta II, a suggello della storicità dell’impresa.
Da allora l’alpinismo sull’Everest non si è mai fermato con il suo incessante susseguirsi di spedizioni.
Esattamente 50 anni fa, nel maggio del 1973, gli italiani fecero sventolare per la prima volta il tricolore sul tetto del mondo guidati da Guido Monzino. Nel 1975 fu la volta della prima donna, la giapponese Junko Tabei, la cui storia di tenacia e determinazione ma anche di rispetto dei limiti personali e dell’ambiente, è raccontata nel bel libro di Sofia Gallo Un fiore di primavera nato in autunno (Solferino, 2023).
È del 1980 l’impresa di Messner e Habeler i primi a salire senza ossigeno, decretando il successo dello stile alpino, che propone un approccio alla scalata più rispettoso dell’ambiente: ascese veloci e con equipaggiamento leggero, senza il dispendio organizzativo delle grandi cordate che ricorrono a portatori e lasciano sul luogo l’attrezzatura fissa.
Tra le tragedie, che purtroppo non mancarono, la più famosa è quella raccontata dal bestseller di Jon Karakauer Aria sottile, un vero e proprio classico della letteratura di montagna. Non solo un libro di avventura ma anche una vibrante denuncia di quanto la sfida estrema e indiscriminata alla montagna e il proliferare delle spedizioni commerciali possano portare ad esiti fatali.
Era il 1996 e Krakauer si trovava sull’Everest come inviato dalla prestigiosa rivista Outside. Poté così seguire in prima persona gli avvenimenti che coinvolsero le quattro spedizioni presenti in quota, sorprese da un’improvvisa e violenta bufera. In quell’occasione morirono 8 persone tra cui le due guide Rob Hall e Scott Fischer.
Oggi l’instancabile sequela delle spedizioni commerciali continua e quelli che per Hillary e i suoi compagni erano paesaggi incontaminati e vette da conquistare con cautela e rispetto si sono trasformate in mete di viaggi alpinistici di massa, con conseguenti ingorghi in cresta (celebre quello che nel 2019 causò la morte di 10 alpinisti stremati dalle lunghe attese in coda), inquinamento e danni ambientali dovuti ai continui sorvoli in elicottero dei danarosi patiti del turismo estremo.
Quanto potrà resistere l’Everest a tutto ciò? La sua sofferenza costituisce un esempio emblematico dello sfruttamento indiscriminato e irrispettoso che mina l’ambiente in cui viviamo.
Sir Edmund Hillary, che dopo la sua vita da alpinista si dedicò ad attività in ambito sociale e umanitario per migliorare le condizioni di vita dei popoli himalayani e l’equilibrio ecologico dei loro territori (a lui si devono la costruzione di 25 scuole, due ospedali, 12 cliniche, la fondazione del Parco Nazionale di Sagarmatha e numerose opere idriche in Nepal) aveva già previsto tutto quando disse:
I problemi ambientali sono comunque veri problemi sociali. Essi cominciano con le persone in quanto causa e finiscono con le persone in quanto vittime
È davvero giunto il momento di cogliere il monito delle sue parole e di fermarsi a riflettere per il bene del grande gigante Himalayano e del nostro pianeta.
Di
| Piano B, 2020Di
| Hoepli, 2018Di
| Laterza, 2020Di
| Newton Compton Editori, 2021Ti potrebbero interessare
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