Qual è il numero di episodi che devono accadere per poter iniziare a definire un fenomeno come sistematico e a discuterne e problematizzarlo come tale?
Il termine femminicidio, per esempio, è utilizzato diffusamente in Italia da poco più di un decennio, cercando di veicolare attraverso una parola un concetto che vuole indicare la peculiarità e pervasività del fenomeno degli omicidi di donne compiuti dagli uomini.
Il poco che siamo riusciti a fare, ragionando intorno agli abusi commessi dalle forze di polizia, è schierarci da una parte e dall’altra del cesto di mele marce.
Senza voler citare i fatti del G8 di Genova, possiamo però utilizzare la data del luglio 2001 per elencare alcuni episodi – e si tratterà di un resoconto non esaustivo – avvenuti dopo quel momento nel nostro paese.
Nel carcere di Asti, siamo nel 2004, alcuni agenti di polizia penitenziaria torturano per settimane due detenuti, saranno condannati a un risarcimento danni dalla Corte europea dei diritti umani.
Federico Aldrovandi muore nel 2005 sotto il peso dei corpi, e a seguito dei colpi inflitti con i manganelli, di quattro poliziotti della questura di Ferrara.
Emmanuel Bonsu, studente ghanese scambiato dalla polizia locale di Parma per uno spacciatore (come se questo costituisse giustificazione a quanto gli accadrà durante il fermo) viene picchiato e sequestrato nel 2008, con tanto di foto ricordo che un operatore ha voluto scattargli mentre lo obbligava a reggere un foglio con su scritto “Emanuel negro”.
Siamo in Lunigiana, la vicenda viene resa nota nel 2017 ma le indagini cominciano 6 anni prima: 27 carabinieri rinviati a giudizio con accuse che vanno dalle percosse alla violenza sessuale, dalle intimidazioni attraverso l’utilizzo improprio delle armi alle minacce e insulti a sfondo razziale.
E ancora, nella caserma Levante di Piacenza, la prima a essere mai stata sequestrata in Italia, lavoravano alcuni carabinieri accusati di avere organizzato nel 2020, durante il periodo del lockdown, una piazza di spaccio, torturando chi si opponeva al loro dominio, falsificando atti, arrestando innocenti.
Non mancano ovviamente episodi rivolti contro singole persone, come la vicenda di Hasib Omerovic, il 36enne precipitato dalla finestra della sua casa nel quartiere Primavalle a Roma nel 2022, dopo aver subito una perquisizione illegittima da parte di un gruppo di poliziotti, sei dei quali risultano indagati per falso, depistaggio e violenze.
A Milano, poche settimane fa, alcuni agenti della polizia locale infieriscono sul corpo di una donna trans mentre questa si trova seduta a terra, dai video si vede come uno degli operatori utilizzi il manganello per colpirla più volte sulla testa.
A due giorni di distanza, le cronache ci consegnano le immagini di un carabiniere che colpisce con un calcio in faccia un uomo a Livorno.
Arriviamo quindi ai fatti di Verona, solo gli ultimi di questa parzialissima serie di eventi. Cinque poliziotti arrestati e altri sotto indagine per i reati ipotizzati di tortura, lesioni, falso, omissione di atti d’ufficio, peculato e abuso di ufficio. Anche in questa vicenda abbiamo a disposizione alcuni fotogrammi, estrapolati dai video delle telecamere interne della caserma, in cui si vedono pugni alzati nell’atto di colpire e persone costrette a terra con la forza. I racconti dei testimoni sono raccapriccianti: insulti, minacce, uomini utilizzati come stracci per asciugare l’urina dal pavimento.
Queste vicende, e le moltissime altre avvenute negli ultimi anni, hanno talmente tanti punti in comune da permetterci di teorizzare un metodo che si ripropone immutabile con ben poche variazioni. Le persone più colpite sono quelle individuate come fragili o marginali, spesso migranti o senza dimore, di cui si suppone una scarsa resistenza, una sorta di abitudine all’abuso e alla violenza, e quindi una quasi nulla attitudine alla denuncia. In questo sistema gioca un ruolo importante anche la convinzione che i marginali, gli stranieri, i senza dimora, non verrebbero percepiti come soggetti credibili in un’aula di tribunale, alimentando così il delirio di impunità che affligge la maggior parte degli operatori delle forze di polizia raccontata in queste storie.
Nelle intercettazioni del processo della Lunigiana è riportata la frase di un carabiniere che esprime alla perfezione la cultura sottostante alla maggior parte di questi fatti: “dove non arriva la giustizia, arriva l’ingiustizia”.
E l’ingiustizia si annida nello scarso controllo che riusciamo a prevedere per l’operato di chi, nel nostro paese, rappresenta l’unico soggetto che possa utilizzare legittimamente la forza pubblica. L’ingiustizia si trova nell’aver sostituito il lavoro sociale e di cura con il controllo e la repressione, nell’aver delegato alle agenzie di sicurezza il compito di eliminare dal nostro sguardo coloro che percepiamo come indesiderati.
L’ingiustizia risiede nel rischio, da un lato, di avere molti innocenti nelle nostre prigioni e, dall’altro, di vedere smantellato il reato di tortura dopo decenni di lotta per la sua introduzione. L’ingiustizia è dimostrata dal fatto che non siano mai state istituite commissioni di inchiesta parlamentare su questo fenomeno, e che non ci siano dati o ricerche che ci aiutino a comprenderlo, a tratteggiare una base di conoscenza comune e condivisa dalla quale partire per affrontare gli abusi commessi da chi indossa una divisa.
Diceva Denis Szabo, criminologo ungherese fuggito in Canada nel 1949, che la polizia la si approva o la si critica, ma non la si studia. Smentire questa affermazione potrebbe essere il primo vero obiettivo da porci.
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