Stefano Simonetta, docente di Storia della Filosofia medievale all’Università Statale di Milano, è il referente di Ateneo per il sostegno allo studio universitario delle persone sottoposte a misure restrittive.
Da 2015 ha dato avvio al Progetto Carcere della Statale, del quale è responsabile. Parte delle sue attività didattiche si svolgono in carcere all’interno di questo progetto, dove lavora su temi di filosofia e di storia della filosofia con studenti esterni e interni alle carceri.
In questa intervista ricca di aneddoti interessanti e coinvolgenti, ci parla con entusiasmo e orgoglio di questo progetto innovativo di grande rilevanza a livello sociale. Un'iniziativa che, come ci spiega, è stata per lui "un’esperienza sul piano umano e culturale, come docente, come cittadino e come uomo, veramente di grandissimo valore".
Cominciamo a raccontare del Progetto Carcere dell’Università Statale, definendone le linee generali. Oggi che cos’è?
Oggi è il progetto di polo universitario-penitenziario più evoluto in Italia sia rispetto ai numeri, con quasi 140 studenti ristretti iscritti su un totale di poco più di mille a livello nazionale, sia in merito alle attività proposte.
Al centro di questo progetto c’è l’idea di permettere a coloro che sono ristretti e desiderano studiare all’università e partecipare, nei limiti del possibile, alla vita universitaria, di farlo. Quindi di esercitare il diritto allo studio, che sulla carta non hanno perduto ma che spesso non possono esercitare o esercitano con mille difficoltà. Questo progetto ha lo scopo di attenuare queste difficoltà, che non possono certamente scomparire. In questi anni siamo passati da pochi studenti ristretti ai numeri che dicevo prima, ma soprattutto ad aumentare è stato il numero di corsi di laurea a cui questi studenti possono iscriversi, di esami che riescono a dare, di attività a cui possono partecipare. Tutto questo fa sì che ci sia un numero crescente di persone che, oltre che detenute, per parte del loro tempo di detenzione possono sentirsi studenti universitari.
E per rendere ancora più sinergico questo progetto, da qualche anno una piccola parte dell’offerta formativa si svolge all’interno delle carceri milanesi, in particolare a Opera e Bollate. Sono corsi nei quali studenti e docenti entrano in aula e partecipano alle lezioni insieme ad un numero analogo di persone ristrette. Inoltre, circa un 10% degli iscritti possono anche andare materialmente in università usufruendo di permessi di studio.
La parte principale, comunque, di svolge all'interno delle carceri dove ogni settimana un po’ dei corsi, degli studenti e dei docenti della Statale entra per svolgere una parte delle attività didattiche all’interno di questi istituti.
Dal punto di vista burocratico, ma ancora prima culturale, facciamo una brevissima considerazione sul dialogo tra due istituzioni “pesanti” come sono l’Università e le Carceri. É andato tutto liscio oppure ci sono stati molti scogli da superare per rendere operativo questo progetto?
Sulla carta avviare una collaborazione tra due istituzioni pubbliche dovrebbe seguire un percorso abbastanza lineare, ma in questo caso è stato piuttosto accidentato e difficile, perché entrambe le componenti sono anomale. Da una parte abbiamo un insieme di carceri con le difficoltà che queste istituzioni hanno e con la dovuta attenzione all'esigenza di sicurezza che ossessiona chi le guida, dall'altra abbiamo l’università che è essa stessa un mondo a sé al cui interno ci sono resistenze e abitudini difficili da smuovere.
Superare le comprensibili resistenze ad entrare nelle carceri non è stato facile, ma con la costanza e l'impegno di chi ha creduto in questo progetto si è riusciti a portare avanti questo percorso che sta dando notevoli risultati. É una fatica che continua ogni giorno, perché ci sono variabili che possono rimettere un po’ tutto in discussione e subentra la necessità di trovare un nuovo equilibrio, ma la passione e la testardaggine che contraddistingue chi è coinvolto nel progetto ha permesso di superare tutte le difficoltà. Questo anche perché si è voluto procedere in maniera formale e normare il rapporto tra Università e carceri, stabilendo bene diritti e doveri, stabilendo l'ufficialità del lavoro dei docenti così come la frequenza degli studenti. Tutto questo ha fatto sì che nulla venisse lasciato al caso e oggi fa procedere il meccanismo su binari ben definiti.
Com’è intesa dal detenuto la funzione pedagogica e di apprendimento, solo in senso riabilitativo o di puro accrescimento personale?
É difficile parlare per una comunità così ampia. Ci sono differenze significative in base all’età dei nostri studenti, che vanno da giovani adulti fino a persone che di quegli studenti potrebbero essere i nonni. E molto dipende anche dalla prospettiva futura di ognuno di loro: ci sono persone che hanno un orizzonte di pena breve e che quindi vivono lo studio come un viatico ad un prossimo reinserimento nella società, magari anche per un impiego lavorativo non lontano; chi, invece, ha orizzonti di pena molto lunghi o addirittura l’ergastolo stativo tende a far prevalere l’elemento culturale in sé, e vive questa esperienza più per crescita culturale personale o per il desiderio di fare qualcosa di diverso dalla routine del carcere.
Le situazioni sono, quindi, molto diverse. Indiscutibilmente in un carcere di massima sicurezza come, ad esempio, quello di Opera, i ristretti vivono questa opportunità soprattutto come un’esperienza culturale ma anche come un’occasione di socialità, di incontro con un piccolo frammento della società civile, che altrimenti non avrebbero e questa opportunità ha già un grande valore di per sé.
Infine, numerosi tra loro ci dicono che questi studi sono un’occasione per fare i conti con quello che è accaduto, per acquisire una maggiore consapevolezza rispetto a quello che hanno fatto e valutarlo da un altro punto di vista, che prima non avevano.
Di recente uno di loro ci ha detto: “Da quando abbiamo incontrato i libri, non abbiamo più alibi”. Questa frase è un meraviglioso omaggio ai libri, anche per chi sta fuori. Lo strumento principale con cui lavoriamo sono i libri, attraverso le parole, i pensieri, i concetti, con la poesia, con l’arte, con il diritto. Sono tutti strumenti che queste persone acquisiscono e che potranno usare come riterranno più opportuno per tutto il resto della loro vita.
Ci sono dei filosofi o autori che abbiano interpretato la situazione carceraria meglio di altri e che hanno avuto quindi suscitato maggior interesse negli studenti?
La filosofia e il carcere si frequentano da tempo immemorabile, indipendentemente dai celebri casi di filosofi incarcerati o di persone che in carcere hanno cominciato a scrivere e a pensare di filosofia. Come dice benissimo Shakespeare nel suo Riccardo II:
“Nel carcere è inevitabile la produzione di pensieri per riempire un mondo di solitudine”
Quindi un po’ tutta la filosofia da questo punto di vista ha una funzione molto efficace quando si lavora in carcere. Naturalmente ci sono autori che colpiscono di più, non tanto per la loro esperienza in carcere o per aver riflettuto sulle situazioni di privazione della pena, come ha fatto, ad esempio, Severino Boezio con La consolazione della filosofia, scritto in attesa di essere giustiziato in un carcere. A colpire sono soprattutto alcuni grandi autori della filosofia romana, in particolare un autore come Seneca le cui opere, e tra tutte le Lettere morali a Lucilio, vengono citate spessissimo come quelle che hanno più colpito gli studenti ristretti. Anche Montaigne, autore straordinario nella sua capacità di raccontare senza giudicare, viene spesso citato tra gli autori maggiormente apprezzati.
E in generale, ovviamente, colpiscono molto tutti quegli autori che coltivano il dubbio, perché vengono letti da persone che sono state giudicate in modo inappellabile non solo dal tribunale, ma dalla società.
Uno dei valori aggiunti di questa iniziativa è quello di rendere più porose le mura delle carceri. Dal tuo punto di vista qual è la sensazione e l’entusiasmo degli studenti non ristretti rispetto alla possibilità di seguire delle lezioni allargate alla popolazione carceraria? Che cosa rimane da questa esperienza condivisa?
La partecipazione degli studenti è straordinaria, abbiamo molta più richiesta di quanta si possa soddisfare e di quanta ce ne immaginavamo all’inizio. Abbiamo un numero crescente di studenti che sceglie la Statale di Milano anche perché c’è questo progetto. Questo mostra una generazione migliore di quella che dipingiamo come meno impegnata e concentrata a raggiungere quanto primi i crediti e il titolo di studio. Per quanto resta dopo questa esperienza, posso dire quanto è successo a me. Sono entrato in carcere per dare un contributo come cittadino e docente alle persone che sono detenute e ne sono uscito incredibilmente arricchito. É un’esperienza sul piano umano e culturale, come docente, come cittadino e come uomo, veramente di grandissimo valore.
É così anche per tanti studenti, che vivono un’esperienza formativa originale e di cui ci parlano come la cosa più bella che hanno fatto nel percorso universitario. Per molti di loro è un modo di rimettere in discussione i giudizi propri e delle persone con cui sono in contatto. Sono frequenti, infatti, i racconti che ne fanno a conoscenti, parenti e amici: in questo modo portano una testimonianza di questa loro esperienza a un pezzo della società civile, senza pretese di cambiare il mondo ma in controtendenza con quello che è lo spirito dei nostri tempi. Uno spirito ben diverso, quello di chi invoca la certezza della pena, di chi chiede pene esemplari, di chi invoca che si “lasci marcire in prigione l’autore del reato di turno” in uno scatenarsi dei peggiori istinti che va al di là della distinzione tra progressisti e conservatori.
Avere, invece, centinaia di studenti che entrano in carcere e trattano i ristretti come esseri umani, li ascoltano, studiano con loro, condividono con loro momenti di vita quotidiana colpisce molto ed è bellissimo.
C’è una reciprocità che permette a chi è dentro di accorgersi e di sentire parlare del disagio di chi è fuori, e a chi è fuori di sentire i racconti di chi è dentro: questo non porta ad una reciproca consolazione ma ad una maggiore consapevolezza degli uni e degli altri, di come ci si possa sentire liberi in carcere o ristretti fuori.
Puoi raccontarci una storia che condensi gli aspetti di cui ci hai raccontato, che abbia a che fare con il valore inestimabile dal punto di vista riabilitativo della persona di fronte a sé stessa più ancora che di fronte alla società?
Uno dei ricordi più forti che ho è quello di una persona che non uscirà mai di prigione. Al termine di una lezione dedicata all’ identità personale, a che cosa fa sì che noi si sia quello che si è, se ci sia un nucleo irriducibile oppure si sia in evoluzione, questa persona ha preso la parola con grande timidezza e ha iniziato il suo intervento dicendo “Io sono i libri che ho letto”. Ha poi spiegato come non abbia più alcuna memoria della persona che era quando è entrato in carcere negli anni ‘80, ma di quanto dai libri letti in questi anni abbia appreso e quanto di tali libri si sia vestito. Anche questo è un bellissimo omaggio ai libri.
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