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Cieli in fiamme di Mattia Insolia

Che Mattia Insolia sia una delle voci più interessanti del panorama italiano contemporaneo, lo si sa dalla sua opera d’esordio Gli affamati (Ponte alle Grazie, 2020), valsagli la candidatura al Premio Strega. Tre anni dopo, ventottenne, eccolo di nuovo qui a testimoniarci che il talento non è di certo una questione anagrafica: è avere qualcosa da dire, un fuoco che non si esaurisce e anzi, proprio nelle parole, si manifesta e arde.

Il suo nome era Riccardo Giordano, aveva trentasei anni e quella notte, in quel momento, aveva davanti a sé i corpi di ciò che era stato in vita. Di chi era stato tutte le volte che era cambiato. E adesso, per uccidere le versioni di cui non reggeva più il peso, stava per uccidere quel che era oggi. Stava per spararsi un colpo in testa. Quindi posò l’indice sul grilletto della pistola e si preparò a morire

Cieli in fiamme
Cieli in fiamme Di Mattia Insolia;

Chi è la persona che ogni mattina incontriamo allo specchio? Quanto ci riconosciamo nel nostro sguardo e quanto ci vorremmo diversi da come siamo? Pur così giovane, Mattia Insolia ha una poetica, la determinazione di esplorare la confusione, le contraddizioni, il furore, la vitalità di due generazioni: genitori e figli

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Cieli in fiamme si dipana come un gioco di specchi, in una struttura a capitoli paralleli – alcuni ambientati a Camporotondo nell’estate 2000, altri nell’inverno 2019 a Paloma. Ad aprire il romanzo è Riccardo, la cerniera tra i due piani temporali che, sapientemente ed equamente alternati dall’autore, sono ancillari l’uno all’altro, si rincorrono e si fondono: l’incipit è l’unico figlio possibile di ciò che è accaduto quell’estate di diciannove anni prima. Il resto del romanzo, per il lettore, è l’indagine del cosa. E perchè.

Gli errori che facciamo non se ne stanno rinchiusi negli anni in cui li abbiamo commessi come statue, tipo delle sculture che il tempo consuma e alla fine sgretola. Gli errori che facciamo sono un’infezione, secondo me. Una malattia che pian piano si piglia tutto, parte dal punto in cui te la sei presa e ti uccide

Teresa Vasta ha sedici anni, molti problemi col suo corpo, un padre inetto e depresso e una madre bigotta e violenta. La sua famiglia è, di fatto, abusante e questo si riflette sull’autostima della figlia e sulle sue capacità relazionali. Quando Teresa incontra Riccardo vede in lui tutta la bellezza che c’è nel mondo, concentrata lì, in un’unica persona. Tutta la bellezza che non vede in lei. E ne rimane affascinata. Al punto da aver voglia di provare a ribellarsi all’oppressione genitoriale e a immaginare una realtà diversa per sé.

Niccolò Giordano di anni invece ne ha diciotto ed è un adolescente arrabbiato e crudele, vive la vita in maniera sregolata, come se fosse il suo parco giochi, e ubbidisce esclusivamente ai propri istinti, senza senso di responsabilità o empatia. L’atteggiamento di Niccolò sembra derivare da un dolore di cui non conosce l’origine. Ancora non lo sa, ma somiglia a suo padre più di quanto non vorrebbe. In effetti è una recriminazione che Teresa gli fa spesso, e improvvisamente lo guarda con un odio viscerale che lui non riesce a spiegarsi. Ma a cui inizierà a dare forma, nei giorni in cui il padre ripiomberà nella sua vita e lo convincerà a fare un viaggio insieme verso il paese di Camporotondo. Dove – lo sanno i lettori, ma non Niccolò – Riccardo e Teresa si sono conosciuti.

Centoquaranta. Centocinquanta. Centosessanta. Centosettanta. La Fiesta, disperata, impazzita, lanciata a centottanta all’ora, cercava di raggiungere il punto in cui il temporale infuriava più violento. «Papà...» tentò Niccolò. «Dimmelo. Ti lasci accadere?» ripeté; era così calmo da terrorizzarlo. «Papà, finiscila!» «Devi venire con me, Niccolò. Devi venire con me e devi dirmelo.»

A centottanta all’ora, in autostrada, in piena tempesta, con il figlio terrorizzato e lui così calmo da aumentare la paura, Riccardo glielo inizia a dire, che il suo errore è sempre stato non dare alla vita un potere. Mandare tutto a fanculo. E ora lo deve sapere, se suo figlio è come lui – e implicitamente il sottotesto è che spera di no. Perché una vita senza forme, dove ci si lascia accadere solo dopo averle distrutte tutte, non è vita. E non vale niente.

Avevo paura che ti avessi... non lo so, lasciato un pezzo di me come una malattia ereditaria del cazzo e volevo… guarirti. Volevo che vedessi tutto ora, che... capissi che quello che sei stato, in qualche modo, lo sarai sempre. Che te lo porti sempre dentro. Ora che puoi ancora salvarti.

Il loro sarà un viaggio costellato da rari momenti di tenerezza e comprensione, subito perduti tra le pieghe di una rabbia indomita e un dolore sotterraneo. E in effetti il dolore è il vero protagonista di questo libro, «e il dolore è il più rigido dei capifamiglia». Dolore che si infligge, dolore che si prova, dolore che si percepisce, dolore che genera altro dolore. Siamo in una storia che parla del male che danneggia esistenze altrui, e del male che segna in modo indelebile anche chi ha il ruolo di carnefice.

E allora ho capito che nel mondo ci devono stare anche i cattivi. Ci devono stare anche quelli che nella vita degli altri portano dolore e... merda, noi eravamo quelli. E io non sono riuscito più a sopportarlo.

Con una scrittura chirurgica e sfrontata, sempre lontana dagli stereotipi, Insolia dà vita a un romanzo potente, movimento dei tempi, in cui la generazione dei figli guarda i genitori e li scopre inadeguati. Grazie alla forza della scrittura il lettore vede specchiarsi le due giovinezze di padre e figlio, incredibilmente vicine, assurdamente simili, eppure potenzialmente diverse. Il desiderio che un certo modo di stare al mondo non sia un’eredità genetica, per Niccolò sembra diventare una volontà. Non che ci sia una salvezza scontata in Cieli in fiamme, i personaggi non hanno attenuanti né soluzioni, solo la tenue speranza che specchiarsi nella generazione precedente possa aiutare quella dopo a non lasciarsi accadere, a essere diversa – migliore, magari.

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Mattia Insolia, nato a Catania, si è laureato in Lettere a La Sapienza di Roma con una tesi sul movimento letterario dei Cannibali italiani, per poi proseguire gli studi in Editoria.Ha pubblicato racconti di vario genere e scritto per diverse riviste di cultura, tra cui «L'indiependente».Nel 2020, per Ponte alle grazie, pubblica il romanzo Gli affamati, candidato da Fabio Geda al premio Strega 2021.

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