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Come dividere una pesca di Noor Naga

 

Basta la prima pagina di Come dividere una pesca, edito Feltrinelli ed esordio italiano di Noor Naga, per sapere già che non sarà una lettura che lascerà indifferenti (un plauso va già all’utilizzo narrativo di questa pesca, che non si dimentica e che resta impressa per tutto il romanzo). Nel bene, e nel male, la postura da assumere è scomoda. Il piacere, il gusto, possono essere messi da parte perché, per buona parte del romanzo, ciò che conta è il susseguirsi di domande che non cessano di arrivare, di generarsi, per lasciare subito spazio a una domanda più grande.

Come dividere una pesca
Come dividere una pesca Di Noor Naga;

Lei è un’americana laureata alla Columbia, lui un egiziano nato in un villaggio “che nessuno ha mai sentito nominare”. Si incontrano al Cairo, sei anni dopo la rivoluzione del 2011 che non è riuscita a portare il rinnovamento tanto sperato, da quel momento la loro vita non sarà più la stessa. La ragazza, figlia di egiziani benestanti emigrati negli Stati Uniti, è in cerca delle sue “radici”, come dice la madre in tono sprezzante. È allora possibile che la fragile relazione nata tra i due protagonisti senza nome li aiuti a ridare un indirizzo alla loro esistenza?

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Le domande sono cruciali. L’autrice sceglie di metterle all’inizio di ogni piccolo capitolo e, nella loro essenza metaforica, portano avanti un ordine disorientato da seguire. Il disorientamento che torna e ritorna. Quello iniziale è dovuto alle due voci che si intrecciano e che, all’inizio quantomeno, non sembrano alternarsi fra le pagine. Man mano, invece, si scopre che alcuni capitoli appartengono al ragazzo di Shubra Khit mentre altri alla ragazza americana.

Mi ha detto che veniva da un villaggio, Shubra Khit. Mi ha detto che un abitante di New York e uno del Cairo hanno più cose in comune di un abitante del Cairo e uno di Shubra Khit, anche se non mi ha voluto dire quali fossero queste cose in comune

Il titolo originale, If an Egyptian cannot speak English, ferma proprio la centralità del rapporto fra le “radici” da ritrovare di lei – vissuta in America, nata da genitori egiziani, intenta a ristabilire una connessione con ciò che la lega a questa terra, e quelle di lui, figlio di un luogo minuscolo, povero, per cui Il Cairo è lontano e pericoloso – fotografa la rivoluzione contro Mubarak del 2011 e lì, in quel cambiamento non avvenuto, ha lasciato una parte di sé.

Si attraggono e si respingono. Lei fluttua nei lunghi vestiti di seta, senza alcun velo, ma sfidando un Egitto religioso che non accetterebbe la chioma scoperta, figurarsi una testa rasata. Lui ha i pantaloni consunti, un’altezza asciutta e prosciugata da anni di dipendenza dalla droga, ma sempre la macchina fotografica penzolante al collo. Si descrivono così, lei attingendo a un bacino lessicale pieno, ricco – in ogni senso – straniera; mentre lui deprivato, disilluso e forse arrabattato nella convinzione cinica e vuota dell’esistenza.

Eppure, lui parla l’arabo che lei desidera possedere e che invece non le appartiene. Lui non brama la ricchezza, quanto la vita che in lei sembra ancora scorrere e pulsare. Le dà quello che può, prende gli stralci della sua visione sulla vita e lascia che si conquistino, in un modo nuovo, fatto di polvere e descrizioni di disincanto, come questa, sulla fotografia:

La fotografia è un magnifico cadavere che si rigira nel suo letto di terra durante la prima notte. La fotografia è uno scialle impigliato nel dito di un ulivo eterno e nodoso. La fotografia non parla di vittoria; la vittoria è più vile, più ignobile della testa di un bambino che ciondola sul petto di quello stesso bambino

E, sebbene, vada scoperto l’approdo di questo libro – una scoperta che lascio solo alla lettura – il punto focale di tutto, vestito in ogni modo, situazione e parole, vibra, fin in ogni minima virgola, nella politica. Pulsa nelle differenze di concezione e complessità del mondo: qui, la ragazza americana, non fa altro che scontrarsi con un privilegio posseduto che invece, negli Stati Uniti, è da guadagnare, ma a quali prezzi? Soprattutto con quali coordinate? Perché quello per cui combatte nel suo Paese, qui, non esiste neppure come idea.

Sono fuori dal mio contesto, confusa su dove siano i margini e i punti di pressione. Chi detiene il potere? Dov’è il centro?

Un libro che cerca di prendere le misure, sovrappone i temi senza oscurarli, non lascia scampo alle riflessioni e, soprattutto, racconta di un mondo – una pesca divisa – che si cerca sempre di tagliare per bene, ma alla fine le parti uguali sono complesse, sono figlie di cambiamenti che sembrano utopia. Una riflessione per un Occidente spesso cieco e che abbandona, di un Egitto che ha desiderio perenne e costante di cambiare. E il giudizio qui non c’entra. E se vorrà entrarci dipenderà, come sempre, dallo sguardo con cui viene approcciato. È una storia con cui non si può fare a meno di riflettere.

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