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Dove si nasconde il lupo di Ayelet Gundar-Goshen

Probabilmente è cosa nota. Ogni libraio, nel corso del suo apprendistato infinito presso la scuola delle storie, sviluppa almeno una forma di avversione. Organica, direi. Perché spesso condita da reazioni allergiche, iperventilazioni, alterazioni dell’umore.

Io per esempio soffro da sempre di una grave forma di dermatite da fantasy.

Suppongo sia congenita, ma durante gli ultimi anni si è decisamente acutizzata. E così, non appena nel mentre della trama vedo spuntare un lasco accenno di elfi, draghi artigliati, continenti ultramondani, comincio ad avvertire un incoercibile prurito. Che non si placa nemmeno con un barile di calendula.

L’unico rimedio è contrapporre quelli che io chiamo “i romanzi del qui e ora”. E non necessariamente perché siano ambientati un quarto d’ora fa in luoghi a me familiari.

Ma perché mi riportino nell’urgenza perenne dei rapporti umani. La sola foresta in cui voglio incantarmi.

Ayelet Gundar-Goshen in questo riesce alla perfezione. Lo ha già fatto colpendo nel segno con Svegliare i leoni (di cui vi ho già parlato in Strade di carta) e Una notte soltanto, Markovitch.

Ed è tornata anche stavolta nello stesso terreno in cui sa muoversi meglio.

Quello delle dinamiche intime, degli equilibri impossibili tra genitori e figli.

Dove si nasconde il lupo
Dove si nasconde il lupo Di Ayelet Gundar-Goshen;

Ayelet Gundar-Goshen costruisce il suo nuovo romanzo intorno alla paura, la paura del futuro, la paura dell’altro, ma anche la paura di chi ti sta più vicino e può rivelarsi estraneo, il lupo nella tua casa. Un romanzo in cui non ci sono confini netti tra innocenza e colpa, sopruso e giustizia, e la verità appare complessa e inafferrabile come nella vita vera.

Dove si nasconde il lupo (Neri Pozza, 2022, traduzione di Raffaella Scardi) è la vicenda di Lilach, trapiantata in California per amore. Ha seguito suo marito a Palo Alto e ha scelto una vita temperata, per clima e sicurezze.

Un posto stabile in cui radicarsi, al riparo da attentati e rancori ossessivi. Al riparo dal pianeta Israele.

Eppure, anche lì la terra frana. Un uomo incombe in sinagoga, proprio dove si sentiva protetta, e con un machete uccide una ragazza. L’edificio scricchiola dentro di lei e Lilach comincia a temere.

Per sé, ma soprattutto per Adam. Quel figlio così fragile che crede poter essere la vittima ideale.

Molti lo definirebbero il “tipping point”, il momento critico che decide del resto, che innesca un cambiamento, che sa di irreversibile.

Lilach e Michael vagliano il da farsi; è il caso che Adam impari a reagire? Forse sì, forse tutto il suo arricciarsi e sfuggire non saprebbe mai aiutarlo. E così arriva Uri e un corso di autodifesa da cui il ragazzo inaspettatamente viene risucchiato. Comincia ad integrarsi, poi ad entusiasmarsi. E Lilach percepisce che Uri sia più di un semplice insegnante, che sappia cose che da lei si staccano come un lembo impigrito.

Come foto che scappano dall’album. Durante una festa a cui Adam partecipa muore Jamal, apparentemente per un malore. O no? Oppure Adam custodisce un altro finale?

Tutto continua a scivolare. Dagli occhi e dal suo baricentro. Lilach non riesce più a trattenere nulla delle sue coordinate. Si affastellano angosce e nuovi sospetti. Chi è quel ragazzo rintanato nella felpa?

È davvero suo figlio, è davvero il bambino che le ha sempre obbedito? Lo stesso schernito e minacciato dai suoi compagni?

Abbiamo cresciuto nostro figlio in America. Abbiamo riposto la nostra israelianità in un armadio, insieme alle coppe di calcio che Michael ha conservato dal liceo. Le ha conservate per ricordo, non perché abbiano una qualche utilità. Abbiamo cresciuto un figlio americano, che va a scuola con i ragazzi americani e adesso dicono che ha ucciso un altro ragazzo americano

Ecco ciò che intendo con “qui ed ora”. La capacità di scoperchiarci la pelle. Di rivelarci brillantemente la precarietà di ciò che sappiamo. Accade ovunque nel planisfero del nostro amare.

Dovunque ci sia una relazione. Ma ancora più spesso avviene per un genitore.

Che magari impiega una vita a capacitarsi di chi siano stati suo padre e suo madre, e quanto abbiano inciso sul proprio pensiero e poi si accorge che «il più grande mistero non sono i nostri genitori, ma i nostri figli»

Creature che generiamo, ma che sono destinate a non appartenerci. A divenire altro da noi.

E questo “altro”, oltre a trascenderci, a volte ci spaventa. Ci spaventa che l’immane fatica di educarli e comprenderli non sia mai abbastanza; che sopravviva una distanza vorace, che non sapremo mai sfamare.

Ci spaventa solo l’idea di ritrovare in nostro figlio le sembianze del carnefice, quelle stesse geometrie allarmanti che ci infettano lo sguardo. Che ci fanno da specchio.

In questo romanzo pulsa e parla tutto questo. Con una lucidità sferzante, una chirurgica chiarezza.

Tanti autori ci hanno accompagnato nelle mangrovie di questo “inconoscibile”. Penso a Roberto Alajmo, Elizabeth Strout, Richard Ford. Ma Ayelet Gundar Goshen ha il merito di svergognare le apparenze, interrogando la pancia delle nostre paure e rendendole, per questo, tremendamente vicine.

Semplicemente umane. Alla faccia dei draghi.

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Conosci l'autrice

Si è laureata in Psicologia clinica all’Università di Tel Aviv. Redattrice per uno dei principali quotidiani israeliani, è attivista del movimento per i diritti civili del suo paese. È anche autrice di sceneggiature che hanno riscosso successo di critica e vari premi, tra cui il Berlin Today Award e il New York City Short Film Festival Award. Una notte soltanto, Markovitch ha vinto in Israele il Premio Sapir per la migliore opera prima. Tra i suoi romanzi, Bugiarda (Giuntina, 2019), Svegliare i leoni (Feltrinelli, 2020) e Dove si nasconde il lupo (Neri Pozza, 2022)

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