“Sapere aude” chiosava Immanuel Kant nel saggio Risposta alla domanda: che cos'è l'Illuminismo?, un motto, ripreso da una vecchia massima di Orazio, che divenne manifesto dell’Illuminismo, il motore del progresso morale della civiltà occidentale.
L'età dei Lumi ci ha tramandato un fervente zelo per la conoscenza, senza il quale molte delle conquiste dell'intelletto umano, oggi date per scontate, non sarebbero state possibili.
Specularmente, un altro lascito dell'Illuminismo è la stigmatizzazione dell'ignoranza, un termine immediatamente associato a connotazioni negative, considerato la radice dei mali che affliggono le nostre società.
In Ignoranza. Una storia globale, uscito per Raffaello Cortina, Burke sfida la visione dualistica e manichea della capacità, o della volontà, di acquisire conoscenza, suggerendo che potrebbe essere la banalizzazione di un tema ben più complesso, esplorando a tal fine i limiti e le conseguenze di tale prospettiva da un punto di vista storiografico.
Nel corso della storia, ogni età ha creduto di disporre di maggiore conoscenza rispetto alla precedente. Ma cosa ne è stato della conoscenza perduta nel corso dei secoli? Come possiamo spiegare i negazionisti del cambiamento climatico? Siamo davvero meno ignoranti dei nostri antenati?
Nonostante la presenza di una robusta tradizione epistemologica, Burke lamenta l'assenza di un vero e proprio campo di studi dedicato solo alla storia socioculturale dell'ignoranza, sottolineando la necessità di istituire cattedre specifiche nelle università di tutto il mondo.
La disciplina dovrebbe chiamarsi “agnotologia” e l’autore in questo saggio ne propone una prima introduzione, aperta a contributi sia storiografici che di altri settori del sapere.
Nei primi capitoli del suo saggio si dedica alla definizione del concetto di ignoranza, sottolineando l’impossibilità di coniare una singola espressione che possa sintetizzare e racchiudere il variegato spettro policromatico delle diverse "possibilità d'ignoranza".
Le discussioni sul tema, secondo l'illustre storico emerito di Cambridge, dovrebbero tenere conto delle innumerevoli manifestazioni in cui il fenomeno può presentarsi, tanto che a livello accademico si dovrebbe parlare di "ignoranze" al plurale, analogamente a come si fa con il concetto di "conoscenze".
Uno spunto utile a comprendere la prospettiva dell’autore, viene offerto dalla citazione di un celebre passaggio di Donald Rumsfeld al Congresso, durante il quale, spiegando le ragioni dell’imminente attacco all’Iraq, reo di possedere presunte armi di distruzione di massa, si prodigò in una machiavellica ma stimolante discussione sulla possibilità di conoscere i fatti.
I rapporti che riferiscono che qualcosa non è successo sono sempre interessanti per me perché, come sappiamo, vi sono known knowns: sono cose che sappiamo di sapere. Sappiamo anche che vi sono known unknowns, vale a dire che sappiamo che alcune cose esistono ma non le conosciamo. Ma esistono anche le unknown unknowns – quelle cose che non sappiamo di non sapere. E se volgiamo lo sguardo alla storia del nostro Paese e di altri Paesi liberi, sono quelle dell’ultima categoria che tendono a essere le più difficili
Nella prima parte del saggio, Burke fornisce, anche a partire dalle distinzioni offerte da Rumsfeld, diverse definizioni di ignoranza, distinguendone ben quaranta tipologie, indicizzate in paragrafi a esse dedicati.
Tra queste, emergono esempi attuali come l'ignoranza organizzativa nelle aziende, dove ai quadri e ai dirigenti potrebbero mancare le conoscenze operative dei dipendenti, prendendo decisioni basate su pregiudizi o informazioni non verificate. Altresì, attingendo dal passato, viene citata l'ignoranza geografica dei rappresentanti degli stati vincitori della Prima guerra mondiale a Versailles, con persino il presidente statunitense Woodrow Wilson che dimostrò una sorprendente incapacità nel localizzare i paesi coinvolti nella conferenza.
Burke mette in luce anche forme di ignoranza non necessariamente negative. L’originalità della sua opera risiede nella volontà di non cedere alla tentazione di collezionare aneddoti divertenti sulle miserie intellettuali, preferendo approfondire il significato epistemologico di cosa significa non sapere. A questo proposito, cita una massima del fisico Maxwell: "L'ignoranza pienamente cosciente è il preludio ad ogni reale progresso della scienza". Questa forma mentis permette la costante messa in discussione dei saperi accumulati da ogni disciplina, rappresentando il motore del metodo scientifico. In questo contesto, l'ignoranza assume la stessa qualità morale del "so di non sapere" socratico, dimostrando che solo partendo da una piena consapevolezza dei propri limiti l'umanità può innescare il progresso, concetto anch’esso non privo di criticità.
Il confronto tra le conoscenze dei nostri avi e le nostre abilità tecnologiche attuali aggiunge infine un tocco di provocazione alla discussione. Riallacciandosi alla teoria del cambiamento di paradigmi di Kuhn, Burke critica implicitamente l'idea che il progresso tecnologico automaticamente corrisponda a una diminuzione dell'ignoranza. Al contrario, solleva l'interrogativo se la nostra dipendenza dalle nuove tecnologie abbia contribuito a un impoverimento delle conoscenze più radicate, soprattutto riguardo alla comprensione della natura circostante. Questa provocazione offre uno stimolo ulteriore alla riflessione sulla relazione complessa tra progresso tecnologico, conoscenza e ignoranza, invitandoci a considerare criticamente i costi nascosti di ciò che potremmo considerare "progresso".
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