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Il buon dottore di Damon Galgut

Il passato e il futuro sono luoghi pericolosi; io avevo vissuto nella terra di nessuno, tra i due confini, negli ultimi sette anni. Capivo che stavo ricominciando a muovermi, e avevo paura

Frank Eloff non ha nessuna intenzione di muoversi. Sta bene lì dov’è, in una cittadina senza nome al confine del Sudafrica – quale? – a fare il medico in un ospedale dove non va mai nessuno. Un luogo, o un non luogo, che diventa ben presto un anti olimpo, una specie di città degli immortali à la Borges: le persone e le cose non cambiano, né muoiono, ma decadono, lentamente e impercettibilmente. Questo finché non arriva all’ospedale un neolaureato entusiasta e pieno di iniziativa, Laurence Waters, che in virtù della comune gradazione epidermica, condivide la stanza con Frank.

All’improvviso, il ritmo cadenzato e sempre uguale a sé stesso dell’ospedale si spezza, e tutti, anche chi vive nella cittadina vicina, sono costretti a fare i conti con qualcosa di nuovo. Laurence agisce per simboli, cioè ogni cosa che fa deve essere piena di significato: è andato in quel posto dimenticato da dio perché «qui è importante che io ci sia»; vuole aprire degli ambulatori nelle zone rurali perché vuole che le persone capiscano l’importanza di avere un ospedale.

Il buon dottore
Il buon dottore Di Damon Galgut;

Frank Eloff fa il medico in un ospedale sudafricano dimenticato da tutti, in un tempo sospeso e sempre in attesa di qualcosa. La novità irrompe nella sua vita con l'arrivo di Laurence Waters, un neolaureato pieno di iniziativa ed entusiasmo, che mina la tranquillità di un mondo sempre uguale a sé stesso.

Intanto intorno a loro – due mondi che si scontrano: l’entusiasmo e il disincanto – una minaccia sembra serpeggiare per il bush del vecchio homeland. Il Generale, il dittatore deposto di quel territorio, sembra essere tornato. Che sia vero o no, Frank sente una strana inquietudine, come Giovanni Drogo nel Deserto dei Tartari, ma senza alcuna voglia di resistere.

Chiunque legga Il buon dottore non troverà l’Africa assolata di cui avere nostalgia, né una nazione libera e capace di ricostruire la propria identità. Si troverà immerso – penso che il termine più opportuno sia invischiato – in un tempo e in uno spazio placido e immobile, più simile alla palude che alle grandi pianure sudafricane. Il mondo che Damon Galgut mette in piedi è fatto di personaggi archetipici, figure, più che altro, tra le quali si muovono i due protagonisti, per un verso complementari, per altri incommensurabili. Ma a rendere gli attori del romanzo maschere non è tanto una velleità autoriale, quanto la percezione, distorta e deformante, di Frank.

Frank fa il medico perché il padre era un medico, e non ha mai conosciuto altro (sarà proprio Laurence a chiedergli perché abbia scelto di farlo, ma lui non troverà risposta). Sta divorziando da sette anni, perché ha lasciato all’ex moglie l’incombenza di sbrigare la burocrazia, e lei non ne ha alcuna voglia. E va a letto occasionalmente con la proprietaria di una bottega di souvenir di cui non sa niente, solo il nome falso che gli ha detto una volta. La sensazione, leggendo di Frank, è di stare su una ruota panoramica da cui è impossibile scendere e che ruota perpetuamente.

«Forse non accadrà niente». «Lo pensi davvero?». «È possibile» dissi. «È possibile che rimarremo dove siamo».

L’ostinazione con cui non vuole liberarsi da quel moto circolare e continuo è tale e tanta che quando la sua orbita è intercettata dalla tangente di Laurence, Frank non può che rispondere con rabbia e frustrazione.

«Se vuoi biasimare qualcuno» dissi, «biasima te stesso. Stavamo bene qui. Tutto stava andando bene. Poi sei arrivato tu. E non potevi lasciare le cose come stavano. No, dovevi migliorarle. Dovevi sistemarle, migliorare la vita di tutti. Adesso guarda come siamo ridotti».
«Come?».
«Esattamente come prima. Solo che adesso nessuno di noi sta bene».

E, inevitabilmente, quando le cose si muovono dal di dentro, si cominciano a percepire anche i movimenti al di fuori. Nel vecchio homeland sono arrivati dei militari a presidiare il confine, ma Frank sa che c’è altro, che il Generale vuole riprendere il potere di quelle terre che una volta erano sue. Sua moglie, poi, ha approntato tutte le carte per il divorzio, e lui va fino a Pretoria per firmarle senza neppure leggerle. In città, infine, scopre che il padre è malato, ma nessuno vuole dirgli cos’abbia, e lui fa ben pochi sforzi per scoprirlo.

Ma il danno è fatto. Perché il movimento tornasse rettilineo, nella vita di Frank, è bastato Laurence, una piccola biglia arrivata a scombinare tutte le altre. E per quante resistenze faccia, il buon dottore non può più tornare indietro, non può risalire sulla sua ruota panoramica per guardare e basta.

Farei di tutto pur di lasciare una traccia su questo vuoto

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Damon Galgut nasce in Pretoria, nel Sud Africa, nel 1963. Il suo esordio letterario avviene a soli 17 anni con il romanzo Sinless Season (1984). Il romanzo del 2003, The Good Doctor, ha vinto il Commonwealth Writers Prize (per l’Africa) ed è stato selezionato per il Man Booker Prize. Tra le sue ultime opere ricordiamo In una stanza sconosciuta (Edizioni E/O, 2011), selezionato per il Man Booker Prize, Estate artica (Edizioni E/O, 2014), La Promessa (Edizioni E/O, 2021), vincitore del Booker Prize 2021 e Il buon dottore (Edizioni E/O, 2022).

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