Tutti costoro, quelli che mantengono aperte le ferite, non smetteranno di esercitare il sacro ufficio della memoria
A cinquant’anni dal golpe militare di Pinochet la nuova edizione de Il generale e il giudice di Luis Sepúlveda (Guanda) ci ricorda che certe ferite faticano a rimarginarsi ed è giusto che sia così, affinché la memoria non rimanga occasionale valletta della ricorrenza, ma pratica attiva di resistenza e lotta.
Il 16 ottobre 1998 il dittatore cileno Augusto Pinochet viene arrestato a Londra con l'accusa di genocidio, terrorismo e tortura. Negli articoli che in quei giorni Sepúlveda comincia a scrivere per giornali e riviste di vari paesi lo scrittore racconta le fasi successive della vicenda e le sue reazioni, e insieme ripercorre, con sovversiva lucidità, l'ininterrotta «storia dell'infamia».
Cile, 11 settembre 1973: il generale fascista Augusto Pinochet guida un colpo di stato militare contro il presidente socialista Salvador Allende. Non è il primo tentativo né la prima avvisaglia, ma questa volta il tiro va a segno, e mentre il compagno presidente viene deposto e ucciso, il generale e la sua giunta aprono un lungo periodo di dittatura – «sedici anni di dittatura e quasi dieci di democrazia vigilata» –, brutale e oscurantista come ogni totalitarismo, che costò al Cile migliaia di vittime – donne e uomini rapiti, torturati, esiliati, ammazzati, desaparecidos.
Londra, 16 ottobre 1998: l’ottantaduenne Pinochet viene tratto in arresto per «crimini contro l’umanità e genocidio commessi in territorio cileno», su accusa dei giudici spagnoli Baltazar Garzón e Manuel García Castellón, che in maniera esemplare offrono l’opportunità di creare un precedente, di dimostrare che la verità può e deve essere difesa, restituendo almeno in parte dignità alle vittime, morte e vive, che troppo hanno perso per via di un sistema marcio alla radice. Ma questo purtroppo è solo l’inizio del travagliato processo che a colpi di arresti domiciliari, burocrazia, sotterfugi e reti internazionali, non porterà mai alla definitiva condanna del dittatore, che muore il 10 dicembre 2006 senza presentarsi all’ultimo processo.
Avemmo l’occasione di processarlo per i suoi crimini, ma ricevette l’incomprensibile aiuto dei governi di Aznar in Spagna, di Blair nel Regno Unito e di Eduardo Frei in Cile [...]. Tuttavia è morto senza pena né gloria, rifiutato perfino dalla destra cilena [...]. Di lui non resta assolutamente nulla degno di essere ricordato, forse il fetore, che ben presto sarà disperso dai venti leali del Pacifico
Luis Sepúlveda è stato membro del Partito Socialista e della guardia personale di Allende, il GAP (Grupo de Amigos Personales). Presente durante l’assedio del palazzo presidenziale, fu in quell’occasione arrestato e torturato dai militari golpisti, che continueranno ad attaccarlo in vari modi negli anni a venire. Ma l’impegno politico di Sepúlveda non è mai stato perturbato, e risulta illeso alla prova del tempo: pubblicato per la prima volta in Italia nel 2003, Il generale e il giudice è una raccolta di articoli editi su diverse testate europee che Luis Sepúlveda scrisse dall’indomani della notizia dell’arresto del generale a Londra – più due saggi apparsi per la prima volta in questo libro – che ripercorrono l’intera vicenda. Si tratta di pagine scritte a testa alta e schiena dritta, in cui non c’è spazio per la paura o la pietà, la cui forza sta nel nominare: che si tratti di rendere omaggio ai compagni scomparsi durante la lotta o ai meritevoli giudici che perseguirono il dittatore, che si tratti di smascherare i soggetti politici che costituirono la rete di sussistenza della dittatura o di rendere noti gli abusi commessi e i luoghi in cui questi vennero impunemente perpetrati, in queste pagine ogni cosa viene messa allo scoperto e nominata per quello che è. Nessuno spazio per la paura e la pietà dunque, e neppure per la retorica e la demagogia che nel corso degli anni hanno tentato di occultare la verità dei fatti, in nome di «unità nazionale» e «ragion di stato».
«La parola è in sé un atto di fondazione e le cose esistono a forza di essere nominate» ci ricorda «dalla solitaria barricata del creatore di mondi» il vecchio Lucho, per poi confessarci:
Scrivo per amore delle parole che amo e per l’ossessione di dare un nome alle cose a partire da una prospettiva etica ereditata da un’intensa pratica sociale. Scrivo perché ho memoria e la coltivo scrivendo della mia gente, degli abitanti emarginati dei miei mondi emarginati, delle mie utopie derise, dei miei gloriosi compagni e compagne che, sconfitti in mille battaglie continuano a preparare i prossimi combattimenti senza paura delle sconfitte
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