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Il grande Nord di Malachy Tallack

Nord significa pericolo e avventura, e significa anche rifugio. Offre possibilità e paura, bellezza e orrore. È quasi privo di persone eppure trabocca delle loro fantasie

Freddo, ghiaccio, tundra, foresta, aurora, tempesta, rigidità, estremi, natura selvaggia. Innumerevoli sono le parole che per associazione di significato verrebbe spontaneo affiancare al concetto di “Nord”. Immaginiamole, per un momento, come perline di una lunghissima collana che dobbiamo comporre: Malachy Tallack con il suo libro Il grande Nord (Iperborea), ci viene in soccorso donandoci il supporto su cui agevolmente infilarle, cioè la “linea” del sessantesimo parallelo a nord dell’Equatore.

Tallack abita nelle Shetland, arcipelago a nord della Scozia, dalle immense distese sempre uguali di torba ed erica. Tra questi bassi e ostinati cespugli si nascondono degli elfi, i “Trow”, che ti convincono a ballare e suonare con loro in un loop alienante che può durare anche degli anni senza che tu te ne accorga. In questo luogo in cui il tempo sembra inaridirsi e fossilizzare il paesaggio e i suoi abitanti, l’autore e cantautore anglosassone un giorno aspetta sulla riva di un lago il padre, che non si presenterà mai, morto prematuramente in un incidente d’auto. Anni dopo, matura la decisione di indagare questa mancanza dolorosa e profonda non andando a ritroso nel tempo, ma seguendo, partendo proprio dalle Shetland, la linea del sessantesimo parallelo a nord, come un equilibrista su un filo che corona il mondo. Perché indissolubile e misterioso è il legame tra l’Io e il luogo a cui questo appartiene:

Lungo il parallelo ci sono regioni i cui abitanti sono messi a dura prova. Dal clima, dal paesaggio, dall’isolamento. Eppure scelgono di restare. Trovano il modo di convivere con le isole e le montagne, con la tundra e la taiga, con il ghiaccio e le tempeste, e rimangono. Il rapporto tra le persone e i luoghi – la tensione e l’amore, e le forme che tale tensione e tale amore possono assumere – è il tema principale di questo libro

Questo piccolo gruppo di isole, altrimenti dai più considerate “sperdute”, divengono il centro privilegiato dell’universo del “Nord”, l’anello di congiunzione della collana del parallelo, da cui si parte e a cui si torna:

Intraprendere un viaggio la cui destinazione finale, certa, è il ritorno a casa è stato un atto di lealtà. Un impegno che, per la prima volta in vita mia, ero pronto ad assumermi

Il parallelo attraversa la Norvegia, supera la Svezia e la punta a sud della Finlandia, tocca la difficile Siberia, oltrepassa la Russia per raggiungere l’Alaska e il Canada occidentale. Giunge infine nella terra-limite della Groenlandia. E l’autore non manca, capitolo per capitolo, di farla visualizzare al lettore tramite accurate cartine geografiche. Ma la dimensione della “linea” trascende la pura sfera del visibile e pratico. Lineare è il linguaggio di Tallack, preciso, limpido e lacerante come un fascio di luce nel ricondurre il dato tangibile di un paesaggio alla sua storia, alle sue problematiche, alle sue contraddizioni, ai personaggi che lo abitano (delle quali ci offre, come in una galleria d’arte, dei “ritratti”: un libraio danese, i cacciatori Inuit della Groenlandia, orde di turisti che spendono cifre esorbitanti per escursioni “profilattiche” e preconfezionate in Alaska, orsi leggendari e minacciosi in Canada). Lineari sono le osservazioni e i ragionamenti, quasi matematici, che l’autore trae da questa complicata rete di corrispondenze, sciolta con la stessa semplicità e il poco clamore di un iceberg che attracca a riva o una nuvola in viaggio nel clima mutevole. Allora tra i ghiacciai della Groenlandia, dove “il confine che separa natura e cultura è stato completamente cancellato”, si può ragionare su come “le sostanze inquinanti che oggi immettiamo nell’aria e nel mare rappresentano per la fauna e la flora dell’Artico una minaccia ben più grave dei cacciatori che vivono lì”; il forte senso di comunità del villaggio canadese di Fort Smith, circondato da molteplici laghi e dunque “isolato”, porta a riflettere su quanto “viviamo in un’epoca di grande isolamento e alienazione in cui i social network vengono spacciati per un’alternativa praticabile o per sostituti della comunità, di cui sono la parodia”; la natura incontaminata e incontenibile dell’Alaska, precedentemente colonia europea e poi merce acquistata dagli Stati Uniti, rende ancora più assurdo il concetto di proprietà della terra, poiché “i popoli indigeni della regione settentrionale dell’America del Nord usavano il suolo e le sue risorse, ci abitavano e si sentivano a casa (…) Il possesso non solo era privo di senso, ma sarebbe stato controproducente per un rapporto sostenibile con il luogo”.

Così su questo filo che è il sessantesimo parallelo brillano, sapientemente inanellate, le perle del Nord, o dovremmo dire “dei Nord”, ognuna col proprio particolare colore ma i quali riflessi di luce in qualche modo si somigliano. E la moltitudine di immagini dei luoghi che Tallack ci restituisce come osservati da lontano, in un fluido volo ellittico, in ultima analisi riesce a svelare qualcosa di estremamente interno e personale, comune ad ogni essere umano:

La terra segnò la gente proprio come la gente, a sua volta, segnò la terra. Se esiste una ‘costante invisibile’ o un’identità conferita da un luogo ai suoi abitanti la si può ritrovare soltanto lì, in quel legame, nel rapporto con la terra (…) Perché proprio come noi abitiamo il passaggio, il paesaggio abita in noi, nei pensieri, nei miti e nei ricordi; e la vastità della terra ci invita a provare un senso di attaccamento, oppure ci si attacca addosso

Il grande Nord, erede ideale e affine a scrittori come Macfarlane o Chatwin, sposta tuttavia l’asse della letteratura di viaggio verso l’interessante confine tra il personale e il pubblico, dove la vicenda di dolore personale risuona fortissima nella coscienza comune, affrontando mai forzatamente, ma con agilità e puntualità la critica storica e sociale dei tempi in cui viviamo.

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