«L’universo non ha un centro, ma per abbracciarsi si fa così:» comincia Livia Candiani, in sua famosa poesia. Il libro della pioggia di Martino Gozzi è, di fatto, la continuazione di questo incipit; quello che ognuno di noi, a modo suo, cerca di aggiungere a seguito di quei due punti.
Martino e Simone. Un'amicizia epica, la loro, tenuta insieme dalla musica e dalla giovinezza. Simone suona il basso mancino come Paul McCartney, ha una band, scrive musica. Ha il dono di saper amare e farsi amare. Se ne va troppo presto. Martino, voce di questo romanzo-mémoir, racconta il congedo lento ed eroico di un giovane uomo speciale e la traccia che ha lasciato dietro di sé.
Martino e Simone hanno tre anni di differenza e vivono a un civico di distanza, in un paesino della provincia di Ferrara. Da piccoli giocano spesso insieme, poi Simone si trasferisce e si perdono di vista. Di anni ne passano un po’ da allora. È estate, una sera d’agosto, e il giorno dopo Martino partirà per l’America. A Simone viene naturale passarlo a salutare – era tipo da quei gesti, lui. Mite, alto, gentile. Un bassista mancino, come Paul McCartney. Un riferimento, un amico, un fratello. Il centro di gravità del gruppo che di lì a poco si sarebbe venuto a formare. Uniti dalla passione per la musica e da un’indomita fiducia nelle potenzialità della vita, Martin e Simon non si lasciano più. Si vogliono bene in quel modo che ricorda i più bei film americani, e come la pellicola di un film Martino fa fluire sulla carta i ricordi, teneri e veri, di questo rapporto. Simone costruisce giorno dopo giorno il suo amore con Stefania e insegue il sogno di fare musica: mette su gruppi, scrive canzoni, infiamma i palchi. E intanto Martino gira il mondo, si perde e si ritrova, diventa traduttore e scrittore, insegnante, marito e padre. Sono giovani e sono felici. Ma «è quando abbassi la guardia, mentre stai vivendo, che ti arrivano le sberle più forti, quelle tremende, che ti fanno vacillare». Simone si ammala di leucemia. Muore. «Eccola, la sberla».
«Si scrive ciò che non si conosce di quello che si conosce» dice Martino ai ragazzi dell’ospedale in cui insegna una volta al mese, per provare a sentirsi meno impotente, per tentare di essere d’aiuto a qualcuno. L’ospedale è lo stesso in cui è ricoverato Simone, la citazione arriva dalla poetessa statunitense Grace Paley. Ma è una lezione anche per noi, la chiave di lettura di questo memoir onesto e coraggioso. Ne Il libro della pioggia Gozzi scrive proprio di quello che ancora non conosce di quest’amicizia che lo ha accompagnato da sempre: il dolore, la separazione, la fine. Eppure al centro del libro non c’è la morte ma la vita. Quella con Simone, innanzitutto. E poi quella senza Simone. La vita che sa lasciare spazio al dolore, chiedere aiuto, cercare le parole. La vita che sceglie e non si fa più scegliere, anche quando significa terminare un matrimonio.
Non c’è bisogno di una scrittura complessa a sostegno, di filosofia e di morale, perché è la complessità dell’esistenza quella che si sta raccontando. Martino Gozzi allora accantona il mestiere, che sa fare davvero bene, e traduce ciò che sente con uno stile delicato, privo di manierismi ed effetti, lungo una strada in cui è soprattutto un uomo. Con tutti i limiti e le finitezze del caso. Ma anche con tutto ciò che ci rende incantevoli. Come la musica, la scrittura e tutti quei modi che abbiamo trovato per far restare qualcosa. Per tenerlo vivo, raccontarlo ad altri, far esistere un tempo che renda vero l’impossibile. Ad esempio sentire cantare Simone. Vederlo sul suo divano, sotto la coperta parlarci «delle energie che sopravvivono al mistero dei meccanismi della vita, e le ragioni che ha». E intanto «essere presenti, lungo la strada. Lottare, amare. Piangere. Camminare. Cantare a perdifiato».
Siamo vivi e stiamo correndo.
Stiamo correndo fortissimo.
Siamo immortali.
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