La poesia di Enrico Testa s’inserisce a pieno titolo nella linea larkiniana di colloquiale quotidianità con punti salienti, interstizi, orlature di un tragicismo postmoderno. Nel recente L’erba di nessuno (Einaudi) questo cortocircuito espressivo – lo stile morbido e il semantema di un drammatico «tiepido soffio» – raggiunge probabilmente il suo culmine.
Divisa in nove agili sezioni (Fildiruggine, Arcobaleno da camera, Taràssaco, Lettere e voci, L’erba di nessuno, La sesta persona, Cape Cod, Zone di transito, Nebbia di mare), la silloge accoglie testi fortemente legati a esperienze mnestiche (Rune, Lettera agli amici da Salita delle Battistine 8), all’epistemologia del linguaggio (Verba volant), ad angosciosi temi d’attualità (Il crollo del cimitero di Camogli). Numerose sono, inoltre, le traduzioni “incorporate” nel dettato e fatte proprie dal poeta, perché sente di aderirvi del tutto, quasi fungano da segnavia esistenziali: Francisco de Quevedo, Dylan Thomas, Emily Dickinson, Rainer Maria Rilke, Andrew Marvell, Friedrich Nietzsche, oltre al già citato Larkin e a un imponente apparato intertestuale deleuzianamente disseminato che comprende, tra gli altri, Corrado Govoni, Osip Mandel’štam e Rachel Bespaloff. Questo incrocio rinforzato di letture ha il valore di affermare una più solida fiducia nella parola, al di là delle ontologie negative di Fernando Pessoa e Giorgio Caproni. Intende anche presuppore l’erranza del significato nel flebile ciclone di una resistenza poetica («Resistono ancora e ancora / – amati volatili – / scendono qui da me»).
Uno dei testi più intensi della raccolta è certamente Il vescovo in volo, il cui incipit proviene dal Viaggio sentimentale di Viktor Šklovskij e ha in sé forse qualche reminiscenza heaniana, nonché sparsi riferimenti all’Ecclesiaste:
«il vento soffia a ponente, / poi gira a levante, / e sui suoi giri il vento ritorna”. / Lo sa bene il vescovo sul campanile / che, stretto tra la croce e il parafulmine, / vorticoso volteggia / sopra la cupola di rame verdastro / per le intemperie dei secoli. / Grecale e tramontana lo hanno ridotto / a una porticina brunita / che, cigolando sui cardini ossidati / per vento che va via, / s’apre sul cielo / mostrando altro cielo / – altro vuoto. / Persino quaggiù, sulla piazza, / si sente un lamentoso scricchiolio, / un criii... criii... rugginoso. / Dopo viaggi ed esili, / dalla Francia alla Frigia / dalla Frigia alla Francia / forse sostando un poco anche qui, / Ilario, nemico di Ario, / è ora, col suo pastorale, / indifesa preda dell’aria: / pare prendere il volo / come una foglia autunnale / che nulla può fare di fronte / all’impeto ereticale degli elementi, / al moto perenne dei venti».
La lirica riprende alcune tradizioni attorno alla figura di sant’Ilario di Poitiers, perseguitato dagli eretici e rifugiatosi a Genova.
Davvero gravido di conseguenze filosofiche è, poi, il dialogo serrato con Eugenio Montale – altro testimone di luoghi di “culto” del capoluogo ligure – in Al giovane Eusebio
«no, non tendono alla chiarità / le cose oscure. / Tendono a una più profonda / oscurità: / meduse che vanno alla deriva, / si rapprendono in grumi informi / come grasso sul mare».
È evidente il cenno a Portami il girasole ch’io lo trapianti, presente negli Ossi di seppia: una più drastica presa di coscienza dell’impossibilità conoscitiva del «Signor Mondo» – «covile oscuro», «schiuma opaca» –, sorretta però dall’eguale certezza che «tutto questo» in realtà non è «un male», perché riporta il poeta (e i suoi lettori) a uno sguardo più autentico sulle cose, più schietto e dunque più genuino (all’opposto dei sofisticati «filosofi della cosmesi»), che fa ancora una volta del potere d’eloquenza del linguaggio il suo vero mantra lirico.
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