Un saggio che si legge come un romanzo, che attraverso la storia di alcune singole voci racconta la migrazione di centinaia di migliaia di contadini, artigiani e non solo, che dalla Mitteleuropa sono migrati negli Stati Uniti e in Canada. Il grande miraggio della Statua della Libertà, di un Imperatore d’America benevolo disposto ad accogliere tutti, di un futuro migliore, lontano dalla poverissima regione della Galizia: L’imperatore d’America (qui nell'edizione Keller, 2022) è l’opera di Martin Pollack che Andrei Kurkov ci ha segnalato come il suo cult.
All'inizio del secolo, l'immagine della Statua della Libertà attirò centinaia di migliaia di persone attraverso l'oceano. Fu l'inizio di un'ondata di emigrazione dalla Galizia, – una terra molto povera dell'impero austro-ungarico–, che gradualmente si trasformò in una migrazione di massa.
In occasione dell’intervista all’autore del libro L’orecchio di Kiev (che potete ascoltare con un click), abbiamo chiesto ad Andrei Kurkov di nominarci un libro che per lui ha fatto la differenza. La sua scelta è stata L’imperatore d’America, un’opera che mescola storia e finzione, che unisce a una scrittura saggistica quella narrativa, nata dalla penna di uno dei più importanti giornalisti austriaci del Novecento. La prosa di Martin Pollack è asciutta e precisa, l’influenza del mestiere influisce nella sua chiara finalità documentarista, senza mai rivelare opinioni personali.
È un saggio ma è un libro incredibile che puoi leggere come fosse un romanzo. Parla della migrazione dall’ovest dell’Ucraina, dalla Serbia e dall’ex Jugoslavia verso l’America e il Canada nel diciannovesimo secolo
Al centro delle sue opere vi è spesso il racconto di episodi legati ai paesi dell’Europa centrale e dell’est, con il preciso scopo di riportare alla luce la storia più lontana e più recente dei popoli che occupano le terre dalla ex Jugoslavia fino all’Ucraina (patria di Andrei Kurkov). In questo senso L’imperatore d’America completa il quadro storico mitteleuropeo che Martin Pollack aveva già iniziato a delineare nel 1984 con Galizia.
Non è necessario cercare o costruire a tutti i costi un legame tra due scrittori, solo perché il secondo cita il primo (primo e secondo non per ordine di importanza, piuttosto per cronologia), ma se Kurkov nomina Pollack non è solo per la bravura e la bellezza della sua opera. Possiamo immaginarci dietro una lettura appassionata, che lo ha tenuto incollato fino alla fine, per sua stessa ammissione, coinvolgendo anche il racconto del suo popolo ucraino.
Due scrittori, un interesse comune, ma un modo di scrivere molto distante: da una parte il taglio documentarista e ragionato del giornalista, dall’altra una finzione che unisce crime e narrativa con la travolgente ironia e bravura di Andrei Kurkov. In entrambi i casi il risultato è eccellente.
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