Una premessa: se cercate un libro lineare, che appaghi la vostra voglia di intrattenimento, sperando in una fitta trama da sbrogliare, ecco che l’inganno è servito. Sì, perché questo Inganno che mette in scena Veronica Tomassini è, sopra a ogni cosa, un armistizio davanti alle vicende che non tornano, ai personaggi che giocano con il disvelamento. Qui, in questo romanzo edito da La Nave di Teseo, niente è ingannevole, soprattutto il sentire della sua stessa autrice che si veste a festa e a lutto nel suo estro stilistico, attestandosi agli antipodi di tutto quello che costruisce.
Una donna lascia la sua terra, la Sicilia, alla volta di Milano. Cerca il suo amore, incontrato una sola volta, durante un viaggio in taxi: un musicista francese di Tolosa. Coltiverà l'illusione di rifarsi una vita ma, alla fine, scoprirà di non saper vivere nemmeno i sogni. Riprenderà il suo cammino con una sola certezza: il sentimento è un inganno, un vizio, un peso di cui liberarsi. L'amore è una verità che non appartiene alle cose del mondo.
La voce narrante non delinea una storia precisa, c’è e si intravede nei momenti piccoli, ma importa poco perché cambiano le priorità. Una di queste è la fiumana poderosa e feroce del linguaggio che si addentra in chi legge e crea reazioni contrastanti, quasi selvagge, richiede il mistero dell’attenzione e quindi del tempo, della dedizione. Un tempo che appartiene alle piccole cose, al pensiero ossessivo che ciascuno ha, quella voce nella testa che non tace ma rende loquace il nostro vivere. Uno scrivere delle minuzie che ci attanagliano, quasi annotazioni di un sentire scalzo e inerme. Una scrittura che dà vita a immagini fulminee che restano vivide, come quelle delle chiese, le loro descrizioni, i loro ripari.
Un inginocchiatoio raccoglierà le nostre esitazioni, il pianto di un vecchio, il suo mormorare arreso davanti all’ostensorio
E c’è Milano, questa città che – per chi viene dal sud – spesso sembra un’enorme possibilità o un inceneritore di essenze. Qui Milano vibra in maniera nuova. È la culla del vagabondaggio, è la risposta a un sud che sa di abbandono e di possibilità recise. È l’unica strada possibile per trovarsi, per mettere in luce l’amore. Milano spogliata, una Milano degli ultimi, non agghindata, notturna e inquieta, come l’animo di chi la racconta.
Provengo dal rifiuto.
Dal terrore.
Dalla crudeltà di piccole indecorose anime.
Milano era la distanza, non abbastanza esosa, dalla crudeltà, dall’inganno, dal rifiuto. Ridonda in me la guerra che non ho vinto.
La mia salvezza sarebbe un perdono. Un’amnesia. L’oblio clemente che mi faccia dimenticare l’errore di un rogo.
L’inganno si ripete. Dura poco. Ma replica.
Milano a suo modo lo fu.
Così si perde tutto. Si perde l’amore, cercato con disperazione fra le strade di Milano, fra i suoi sobborghi emozionali, fra le sue pochezze e i suoi abbellimenti. Ma in questo soliloquio di dolore e viscere ne esce vittoriosa la scrittura, fedele compagna, integerrima presenza che annichilisce e rinnova, rischiara quello che va rischiarato, adombra quello che deve andare perduto.
Tomassini fa questo sopra ogni cosa – Wilde avrebbe detto Art for the Art’s sake – ricoprire tutto svestendolo dall’utilità delle strutture, la bellezza della scrittura per la bellezza della scrittura, lasciare che la parola abbia la meglio, che non sia solo la prole di un bravo genitore, che lascia che il figlio cresca nelle sue convenzioni. Permette alla sua voce la possibilità di rispondere a questo inganno che è la vita, che dà dolore e che, per questo, nella scrittura, può ancora trovare salvezza.
Cosa non fa lo scrittore, se non lacerare, aprire carne fremente e calda e tenera, senza l’accortezza di piegarsi a un mistero, a una devozione: lacerare carne fremente e tenera e non considerarlo nemmeno un sacrificio
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