Scelti per voi

La ragazza del convenience store di Murata Sayaka

Ci crediamo moderni, e invece siamo rimasti al feudalesimo.

Si potrebbe riassumere così, grossolanamente ma con la giusta dose di efferatezza concettuale, La ragazza del convenience store, di Murata Sayaka. Il libro del 2016, edito da e/o, è una rilettura coscienziosa nelle settimane del Black Friday, in cui la compulsione all’acquisto diventa sistemica e strutturata.

La ragazza del convenience store

La trentaseienne Furukura Keiko è single e molto introversa: abbandona gli studi per lavorare in un konbini, un piccolo convenience store giapponese aperto 24/7. È qui che è impiegata da diciotto anni e con spirito anticonformista affronta ogni cosa nell'universo circoscritto del konbini, al quale si consacra nella maniera più assoluta.

Gli aggettivi che usiamo per riferirci a questi giorni sono puntuali: è la “cyber” week, la settimana in cui le catene di montaggio sono sotto pressione e lavoratori e lavoratrici soggetti ai ritmi di un sistema produttivo che sarebbe sostenibile soltanto in un mondo interamente automatizzato. Il cyberismo è una forma di coazione a ripetere con cui, mossi da una brevissima scarica adrenalinica, inseriamo i codici sconto, spuntiamo le wish-list, imprechiamo contro il corriere di turno che non ha suonato due volte.

Il cyberismo è anche quello di Murata, addetta del konbini, un particolare negozio del Giappone aperto di giorno e di notte. È conveniente, certo, perché è sempre a disposizione per rispondere alle logiche capitalistiche di immediatezza e rapidità; ed è conveniente per l’addestramento alla cordialità a cui sono sottoposti i suoi commessi, meccanismi di un ingranaggio che con la stessa velocità è in grado di sostituirli non appena i loro corpi non garantiranno più la prestazione psico-motoria necessaria ad assecondare i desideri del cliente sovrano.

Così Murata conduce la sua esistenza da prodotto sempre più prossimo alla scadenza. Incapace di coscienza identitaria fuori dalle mura confortevoli del negozio, non si sente del tutto sicura neanche nel suo ruolo da commessa freeter, precaria e soggetta a sostituzione immediata.

Il convenience store è una sineddoche, un microcosmo fedelmente rappresentativo delle gerarchie e delle insidie del sistema (ri)produttivo sociale. Sono i rumori a contraddistinguerlo, i cori fintamente cortesi del servizio, la logica dell’occasione, l’attrazione verso la prevedibilità rassicurante.

Quello che succede dentro il konbini, l’igiene comportamentale al suo interno, fuoriesce e si espande fino a insinuarsi nei sogni e nel ritmo vitale dei suoi addetti, dettandone le logiche di consumismo relazionale e condizionando l’intera concezione del sistema sociale nella sua interezza.

Murata si sveglia di notte urlando “Irasshaimase”, e avverte un senso di pienezza masochistica soltanto quando “sgobba”; si potrebbe dire che una micro-classe si forma dentro lo store, tenuta insieme non da una vocazione attiva al miglioramento della propria condizione, ma da una specie di languore con cui i lavoratori precari si abbandonano alla frustrazione condivisa. In quella sensazione, monitorata da schemi di temibile e reciproca sorveglianza, riscoprono l’identità collettiva della peggior specie.

A chi appartiene, dunque, il corpo? E se fosse il sistema economico dominante a definire il nostro posto nel mondo, e non viceversa il nostro modo di intendere le relazioni umane a guidare anche quelle produttive? Assistiamo impotenti a un’inversione, che sembra ineluttabile, delle catene di causalità, per cui i fattori che dovrebbero essere determinanti per il welfare collettivo – non separabile dal benessere individuale - si riscoprono variabili dipendenti di un circuito pieno di storture ma sostenuto da una cieca e deterministica obbedienza.

Murata esiste come commessa dentro un negozio che ne usura il corpo ma anche il tempo, che al di fuori della ripetitività attesa delle mansioni diventa esorbitante: il suo essere-commessa diventa un modello del suo essere-sociale, le conversazioni sono apprese identicamente al canovaccio del konbini, le relazioni sono immediate e transeunti come quelle con i clienti.

Si consumano dietro una transazione, si reiterano per abitudine e convenienza, e queste sono le logiche della normalità in cui Murata può tollerare la sua vita. Le angosce dentro e fuori il negozio sono identiche: il corpo stanco e affaticato del commesso senza tutela è lo stesso della donna in scadenza, la cui femminilità si misura sul parametro meramente numerico dell’età anagrafica e riproduttiva.

Questa rivelazione squarcia Murata attraverso le feroci parole di Shiraha, collega e uomo in cerca di allineamento anche lui alle aspettative sistemiche. Shiraha e Murata rifuggono l’anomia in modi complementari che riflettono questa perversa commistione tra vita privata e vita lavorativa: il primo cerca una moglie con gli stessi criteri opportunistici di carriera; la seconda è priva di un’ autocoscienza svincolata dalla sua pressoché totale identificazione con il lavoro.

Quelle hanno occhi solo per i loro colleghi in giacca e cravatta non mi guardano neanche di striscio. È come dico io, rispetto alla preistoria è cambiato poco e niente La ragazza più carina del villaggio sposa l’uomo più forte e capace di proteggerla, il cacciatore migliore [..] La società moderna è una grande illusione. È cambiata solo la facciata, in realtà siamo rimasti alla preistoria

Queste le parole con cui si esprime Shiraha rabbiosamente.

Ci crediamo moderni, e invece siamo una commistione deprimente di feudalesimo iniquo, hybris borghese e puritano protestantesimo. Agiamo da automi, cliccando invia su Outlook con la stessa vuota e fasulla intenzionalità con cui incontriamo le persone e le teniamo ai margini della nostra sfera emotiva atrofizzata.

Quella umana è, direbbe Georges Vigarello, una “storia della fatica”: stanchi di essere stanchi, abbiamo cominciato a risparmiare le energie lì dove non c’è misurazione che tenga, e cioè nella estenuante ricerca del sé, o nella dedizione con cui i rapporti interumani andrebbero curati e coltivati.

Varrebbe la pena forse ripensarsi come il giovane Tanner di Robert Walser, che non teme la fatica di «lottare con la vita fino a cadere per colpa mia», ma quella di restare murato dentro l’edificio di una banca, che è davvero «una cosa stupida in primavera».

Ci credevamo moderni, e invece...

Ti potrebbero interessare

La posta della redazione

La posta della redazione

Hai domande, dubbi, proposte? Vuoi uno spiegone?
Scrivi alla redazione!

Chiudi

Per poter aggiungere un prodotto al carrello devi essere loggato con un profilo Feltrinelli.

Chiudi

Per poter aggiungere un prodotto alla lista dei desideri devi essere loggato con un profilo Feltrinelli.

Chiudi

Il Prodotto è stato aggiunto al carrello correttamente

Chiudi

Il Prodotto è stato aggiunto alla WishList correttamente