Vi sono parole che ci chiamano, che catturano la nostra attenzione, o ci lanciano un segnale se scritte su una pagina. Parlerei di veri e propri incontri tra qualcosa di profondo nel nostro vissuto e una parola–simbolo che lo riporta in luce.
È quello che è successo con questo breve e bellissimo saggio di Vito Teti, La restanza, parola che apre ad una presa di coscienza tutte quelle persone, me compresa anima lacustre e cittadina di adozione, che portano con sé per sempre le dicotomie e le contraddizioni del piccolo paese di provincia da cui abbiamo preso per necessità, ma mai definitivamente, le distanze. La sensazione è quella di entrare, con la lettura del saggio, silenziosamente, in questo nuovo capitolo dell’ "autobiografia dell’antropologo”, nel racconto della sua restanza, e alla fine la sensazione che proviamo è quella di continuare a riempire il luogo dell’assenza e delle radici e di convivere con i due luoghi che ci abitano.
Partire e restare sono i due poli della storia dell'umanità. Al diritto a migrare corrisponde il diritto a restare, edificando un altro senso dei luoghi e di se stessi. Restanza significa sentirsi ancorati e insieme spaesati in un luogo da proteggere e nel contempo da rigenerare radicalmente.
Il libro di Teti si muove sul doppio riflesso di una “geografia del dolore” per narrare anche il viaggio di chi resta fermo: da una parte ci mostra il dolore dei migranti, che nasce dall’abbandono delle proprie radici e dal senso di alienazione e, dall’altro, quello della scelta difficile e dolorosa di chi sceglie di rimanere. Il viaggio di chi resta e i legami di chi parte, la necessità di rapportarsi in modo nuovo con la terra d’origine per entrambi poiché “restare e migrare sono esperienze inseparabili”. Ma sullo sfondo vi è sempre l’anima dei luoghi che chiama a sé, che ammalia, che ci dà forma e memoria, ma che richiede fedeltà e cura.
Arricchito da richiami letterari sulla tematica del paese, “luogo antropologico per eccellenza” con il suo vissuto sociale e di relazioni umane vitali e su quella dei piccoli borghi che vanno scomparendo e spopolandosi, il saggio dà anche voce ad una vera e propria “letteratura dell’abbandono”, che a partire dal bellissimo libro Pioggia gialladi Julio Llamazares ci narra della morte dei paesi o della sofferta scelta di rimanere, come la protagonista del libro Resto qui di Marco Balzano, o ancora dei romanzi in cui la restanza acquista una voce di critica sociale e di valore civile.
Restanza, la scelta di restare, è per Teti, parola colma di ambivalenze semantiche, portando con sé “malinconia, nostalgia, erranza”, vive di contrasti e di rimandi, ma in un ripensamento del termine, dovuto anche alle nuove modalità di vivere il paese nel periodo di lockdown, sembra perdere quelle connotazioni negative di “immobilismo” e di “rinuncia” per aprirsi a nuovi orizzonti, a “luogo di un possibile futuro”.
Si fa appello così ad una nuova cultura che dia senso e possibilità alla scelta di rimanere guardando avanti, prendendosi cura del passato, e che si faccia foriera del la capacità del luogo di accogliere anche chi cerca uno spazio altro di rinascita.
Una restanza responsabile e innovativa che sappia conservare la nostalgia ma guardare al futuro dando un senso nuovo al rimanere.
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