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Le origini del pensiero scientifico di Giorgio de Santillana

La Natura rifiuta di essere male amministrata

Aristotele

Il racconto delle origini ha sempre un fascino tutto particolare. Ne ha uno ancora maggiore quando queste origini sono greche (c’è qualcosa che non abbia, per una ragione o per l’altra, le proprie radici lì?): perciò, quando si legge il saggio di Giorgio de Santillana, bisogna tener conto che la storia che ci racconta parte con un vantaggio, con la bellezza propria delle genealogie che cominciano nell’antica Grecia.

Le origini del pensiero scientifico. Da Anassimandro a Proclo 600 a.C.-500 d.C.

Giorgio de Santillana si sofferma sull’impronta lasciata da quelle remote scaturigini sulla forma mentis tecnoscientifica. In questa cornice il «pensiero scientifico» delle origini, tra cesure e continuità rispetto a quello «mitico», assume connotazioni inedite, in un percorso millenario che va da Parmenide a Eraclito a Pitagora fino alla crisi della scienza.

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Le origini del pensiero scientifico ricostruisce mille anni di storia del pensiero: da Anassimandro – se vogliamo trovare un nome da cui partire – fino a Proclo e alla crisi della scienza antica. È un arco che ci sembra enorme, a parlarne così, e lo è non solo in un senso temporale, ma anche e soprattutto in uno filosofico, che è poi il motivo dell’unicità di questo saggio: tenere insieme faccende distantissime e presentarcele come piccoli nodi su un filo.

I modi in cui gli uomini giunsero alla conoscenza delle cose celesti mi sembrano tanto meravigliosi quasi quanto la natura stessa di quelle cose

Johannes Kepler

Quando si punta lo sguardo così lontano, proprio come faceva Talete con le stelle – dimenticandosi a tal punto delle cose terrene da cadere in un pozzo mentre teneva gli occhi al cielo –, ci si accorge che quando le cose si creano hanno una forma meticcia, ibridata con quanto di più distante possa esserci da loro. Qui si parla di scienza, il tema è chiaro. Ma a leggere di Anassimandro, Pitagora, Parmenide sembra di trovarsi di fronte a qualcosa di molto simile alla magia. E si arriva al nocciolo originario, un nucleo che ancora ribolle, sommerso da stratificazioni di fossili e costruzioni, che ci racconta una verità tanto semplice quanto iniziatica: l’origine del pensiero scientifico non è scientifica.

Il che ha un puro e semplice significato genealogico – non delegittima, cioè, un bel nulla, come nel caso della morale in Nietzsche: per quanto ci piaccia pensare che la sua Genealogia della morale distrugga, di fatto, l’etica, dobbiamo rassegnarci al fatto che, invero, ne propone soltanto una storia. Una, peraltro, tra le tante. Così accade qui, si parte da quegli ionici che credevano in un ordine, in un equilibrio cosmico, che ricercavano la natura – sostanza, archè, essenza ultima del mondo – tra gli oggetti naturali. C’è Talete con l’acqua, Anassimandro con l’apeiron, Anassimene con l’aria, Eraclito, l’oscuro, con il fuoco e il logos.

L’uomo si considera come un essere vivente con la natura e non opposto a essa, come un membro della grande repubblica degli dèi, degli uomini, e di tutto ciò che esiste

Giorgio de Santillana

Quel che progressivamente si perde (o si guadagna, dipende forse dai punti di vista) è la capacità di vedere la natura, l’universo, il cosmo come il regno di cui facciamo parte. Già alla fine di questa storia si comincia a trattare la natura fisica come l’oggetto della scienza, e si crea una frattura che, salvo qualche mente illuminata sparsa nei secoli, è molto difficile da rimarginare. Si perde cioè quella comunità originaria per cui l’ordine che si tentava di dare al mondo era lo sforzo – immane – di avvicinarci a quel mondo stesso. I greci cercavano un terreno comune, un linguaggio che potesse permettere loro di comunicare con lo spazio e il tempo che abitavano per sottrarsi al caos.

Quando Anassimene, solo per fare un esempio, guarda al mondo lo trova disordinato, di primo acchito, mostruoso e caotico. Eppure – e qui sta l’origine del pensiero scientifico –, sembra dire, l’apparenza mi inganna, le cose forse non stanno così, forse il mondo e l’uomo possono comprendersi l’un l’altro. A un baratro inavvicinabile i greci tentarono di opporre una superficie: mutevole, certo, e più spesso di quanto si desiderasse instabile. Prima di creare una nuova separazione, con la natura che diventa, appunto, oggetto, etimologicamente come quel che mi sta davanti e che io posso capire standone fuori, la scienza antica cercava il modo, invece, di star dentro a quella natura. Cercava, in pratica, di dare all’uomo un posto nel mondo, e per moltissimo tempo – questo libro ne è la prova – c’è riuscita.

Pensavano che esistesse un ordine delle cose, un ordine di giustizia e di reciprocità simile a quello degli uomini, e gli uomini avrebbero dovuto cercare di comprenderlo per meglio inserirvisi

Giorgio de Santillana

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