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Manifesto Criminale di Colson Whitehead

Colson Whitehead è una garanzia. La sua scrittura non smette mai di interrogare e di lasciare il lettore attento, fra le sospensioni perfette di trama e stile, fra temi e riflessioni che impattano e lasciano sedimentare contrastanti collisioni emotive ed etiche.

Avviene anche in questo caso, con il secondo volume di una trilogia iniziata negli anni Sessanta con Il ritmo di Harlem e proseguita con questo nuovo volume edito Mondadori, Manifesto criminale.

Manifesto criminale
Manifesto criminale Di Colson Whitehead;

Questa volta Ray Carney sta rigando dritto. Dopo quattro anni, il suo passato da ricettatore è quasi un ricordo e il suo negozio di mobili in 125th Street macina affari onesti. Il contesto tuttavia non aiuta; è il 1971 ed è New York: la spazzatura si accumula per le strade e infuriano incendi dolosi, il livello di criminalità è ai massimi storici, la città scivola verso la bancarotta ed è guerra aperta tra la polizia e il Black Liberation Army.

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Ritroviamo lo stesso protagonista del primo volume, Ray Carney, un uomo con un passato macchiato di qualsiasi attività delinquenziale e che, ora, si sente fuori da quella vita: gestisce un negozio di antiquariato sulla 125th Street e cerca di continuare a camminare su un selciato tranquillo.

Ma basta una piccola miccia, minuscola, per tornare a intrecciare il suo destino con quello delle frange criminali. Sono gli anni Settanta e sua figlia desidera andare a un concerto dei Jackson Five ma i biglietti sono introvabili, tutto sold out. Eccolo, il primo nodo. Un nodo di qualcosa che forse non si è mai sciolto e il cui laccio, una volta stretto, si fa solo appartenenza, ritorno garantito. Così, è matematico cercare il posto per quel concerto e pensare che la via certa di riuscita non sia da nessuna parte se non lì.

Questo innesco è testimonianza di una mentalità vigente nella sottotraccia di Harlem, in mezzo ai suoi gingilli, ai suoi roghi, alle bellezze irrefrenabili e alle violenze inaudite, è una Harlem ricostruita da una penna che comunque ama New York – la ama in quel modo viscerale che è fatto di distanze, di critiche, di riconoscenza, di clamore, di attrazione e repulsione. È un modo di amare che ammette il fallimento di una redenzione. Probabilmente neanche la cerca.

Il libro è diviso in tre sezioni che corrispondono a inneschi temporali ben precisi: 1971, 1973 e 1976. Sono tutti richiami al crimine per Ray ma anche coincidenze storiche non casuali che hanno caratterizzato appieno la storia di Harlem. La traccia narrativa del romanzo stesso sembra quasi disinteressarsi a volte a sé stessa per raccontare qualcosa di più grande – la violenza del periodo della blaxploitation, gli incendi del quartiere nel periodo del bicentenario – tutto a servizio delle sottotrame, dell’ombra criminale che si cela e che ha i suoi orgogli e le sue leggi. Harlem che è padrona e sottomessa, un underground effettivo in tutte le sue sfaccettature.

La sola e rassicurante scrittura possente di Whitehead basterebbe a siglare la bellezza del libro ma, come ben ci ha abituati, ogni scelta non resta abbandonata ma perfettamente costruita, si divide e si miscela nell’esattezza del dualismo, sottrae lo sguardo dalle nettezze e crea un’area di ammonimento per un lettore ammonente, un lettore che lascia fuori dalle pagine il giudizio e si abbandona a un’esperienza guidata, virgiliana. Esistono gli inferni in terra, e questo lo sappiamo bene, lo vediamo di continuo. Ma qui non c’è alternativa, l’alternativa è essa stessa un radicamento nel terreno della vita che deve scendere a patti con qualcosa che non è l’assolutismo del male, è quotidianità impastata con ciò che c’è, con quello che si è sempre stati abituati a conoscere, è una testimonianza di complessità.

Un’altra espressione interessante di questo concetto è di certo quella che accompagna nella storia degli anni Settanta a New York, una storia di battaglie e rivoluzioni, di corruzione che investe la polizia e di istituzioni che si sporcano le mani esattamente come i criminali – tutti sotto lo stesso buio.

New York è la quintessenza, la forza, una coprotagonista di questa storia, una storia che può esistere solo qua, immaginata qua. In una terra che è miscellanea e che si dà manforte per essere ciclicamente pronta ad affrontare le stesse cose, un suolo abituato per non stare mai a riposo. Un po’ come l’esperienza, ogni volta dissacrante e luminosa, di leggere Whitehead.

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Conosci l'autore

Scrittore statunitense, vincitore di numerosi premi, è erede del romanzo postmoderno, della saturazione mediatica che diventa meditazione sulla storia e sul suo assorbimento nella cultura del consumo. Ne L’intuizionista (Mondadori, 2019) gli ascensori diventano simbolo di sviluppo verticale e di un’ansia di promozione sociale che seduce anche i neri. Dopo John Henry Festival (Sur, 2018) mostra un mondo minacciato da un nuovo razzismo, di cui la cultura delle merci si fa veicolo e in cui la pubblicità è la principale fonte di ispirazione nella vita delle persone, mentre il postapocalittico Zona Uno (Einaudi, 2013) destruttura il genere horror. La ferrovia sotterranea (Sur, 2016) è stato un successo internazionale che gli è valso il Pulitzer e il National Book Award. Nel 2019 pubblica I ragazzi della Nickel (Mondadori) E nel 2023 Manifesto criminale (Mondadori).

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