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Maus di Art Spiegelman

L’elemento più stupefacente di questa storia sull’Olocausto è di non essere una storia sull’Olocausto.

In Maus Art Spiegelman, infatti, sfugge alla pornografia del dolore che, nei racconti di questa pagina tragica della Storia, sembra quasi inesorabile, e dona invece alla sua opera una leggerezza espressiva sublime. Leggerezza che, come diceva Calvino, «non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore», e che rende raccontabile una storia al limite dell’inenarrabile, come succede in Se questo è un uomo, come succede ne La vita è bella.

Raccontando un argomento come quello dei campi di concentramento, di cui si parla con un’insistenza che rischia di tediarci narrativamente, era fondamentale già negli anni ‘70-80, quando Maus prendeva forma nella mente di Spiegelman, evitare ciò che già tutti raccontavano, per non ridurre l’Olocausto a un luogo comune.

C’era l’urgenza, in sostanza – e da allora non ha fatto altro che acutizzarsi – di evitare che le generazioni future guardassero all’Olocausto come a un qualcosa di noioso, libresco, ormai reiterato formularmente al punto che uno, i campi di concentramento, può arrivare a dubitare che ci siano stati davvero, come si dubita della Bibbia o dei Vangeli.

C’era bisogno di qualcosa di nuovo.

Perciò Spiegelman, davanti all’esigenza artistica di raccontare la storia del padre, ebreo polacco durante la Seconda guerra mondiale, compie tre mosse.

Innanzitutto, racconta, appunto, la storia di suo padre: Maus non è il memoir in prima persona di un sopravvissuto, ma non è nemmeno una storia di finzione ambientata in quel contesto storico; rimane in equilibrio su un limbo sottile, e sfrutta i vantaggi di entrambe le parti, mantenendo lo spietato realismo del racconto in prima persona, ma con la prospettiva più ampia che offre una distanza narrativa maggiore.

Secondo, lo fa in un fumetto. Che, per natura e abitudini culturali, è un mezzo piuttosto “leggero”, e lo fa creando un bestiario di nazionalità, disegnando, per esempio, lui stesso, suo padre, e tutti gli ebrei come simpatici topini. E i tedeschi? Gatti.

Due scelte, una metafora – tedeschi gatti e topini ebrei – e ci troviamo tra le mani un’icona già completa della persecuzione ebraica.

Non è un caso che i topini di Maus siano costretti a costruire le tane più improbabili e ingegnose per nascondersi dai gatti che cercano di stanarli. Non è un caso che i gatti, nei campi di concentramento, si divertano a giocare con la vita dei topini in trappola.

Terza mossa, Spiegelman non si limita a raccontare Auschwitz.

Anzi, se togliessimo a Maus il racconto dell’Olocausto, il conflitto tra il figlio abituato agli agi del dopoguerra, e il padre che, per risparmiare, ruba i tovaglioli nelle hall degli hotel, terrebbe da solo la storia in piedi. Per questo Maus non è una storia sull’Olocausto, o almeno non solo.

Infatti la sua storia più celestiale, e insieme più angosciosa, ha a che fare con Auschwitz, ma solo in parte. È la storia di un amore, quello di Vladek, il padre di Art, con Anja, sua moglie e madre dell’autore, un amore che attraversa sì Auschwitz, ma lo trascende.

Perché Maus non è una storia sull’Olocausto, ma una storia sulle persone in relazione all’Olocausto, e ci ricorda che, per quanto tragico, quel singolo avvenimento sarà sempre un’inezia rispetto alle piccole, estemporanee gioie e tragedie che avvolgono la vita di una persona.

Quello che ti fa piangere, quello che ti fa gioire in Maus non è la morte o la salvezza nei campi di concentramento, ma le gioie e i dolori quotidiani di questi piccoli topi che, nelle minuscole vignette di Spiegelman, diventano universali.

Detto questo c’è anche chi, come è accaduto con un uomo polacco emigrato negli Stati Uniti, dopo aver letto Maus denuncia di essere stato tratteggiato in modo negativo come nazione (i polacchi sono raffigurati come maiali). E questo è assolutamente vero: Maus tratteggia il popolo polacco in modo poco lusinghiero, con la stessa spietatezza analitica che dedica anche all’autore stesso e a suo padre: lo sguardo di Spiegelman ha una trasparenza intellettuale che di eccezioni non ne sa fare.

Dopotutto, come è chiaro dalle prime tavole di Maus, questa è una storia sulla meschinità degli uomini.

Maus e le storie magiche in generale, non possono salvare il mondo da tragedie come la Seconda guerra mondiale – altrimenti saremmo già salvi perlomeno dai tempi dell’Iliade – ma abbiamo un disperato bisogno di queste storie, perché ci donano la consapevolezza di come stanno le cose.

E questo, forse, può salvarci davvero.

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Conosci l'autore

Art Spiegelman è nato a Stoccolma nel 1948, ma già nel 1951 la sua famiglia, di origine polacca, si è trasferita a New York. Nel 1962 ha venduto al «Long Island Post» il suo primo disegno, l'anno dopo ha creato fumetti come Garbage Pal Kids e Wacky Packages. Nel 1980, sulla rivista «Raw» da lui stesso fondata, è uscito il primo capitolo del suo capolavoro, Maus: la storia (autobiografica) di una famiglia ebrea internata in un lager, raccolta in volume nel 1986, gli è valsa nel 1991 il premio Pulitzer. Suoi disegni e fumetti sono apparsi su numerosi quotidiani e riviste, dal «New York Times» al «Village Voice» e al «New Yorker», e sono stati esposti in musei e gallerie negli Stati Uniti e all'estero. Vive a New York con la moglie, Françoise Mouly, e i loro due figli, Nadja e Dashiell.Di Spiegelman Einaudi ha pubblicato The Wild Party di Joseph Mancure March, da lui illustrato, Maus, L'Ombra delle Torri e BE A NOSE! («Stile libero»). Sotto: Art Spiegelman al lavoro, nel suo studio, alla scrivania e un autoritratto come personaggio di Maus.

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