Questo romanzo mi ha dato fastidio, come mi danno fastidio tutte le cose che ritengo così vere da non volerle ascoltare o leggere. Ha questa cosa minuscola che prende uno spazio essenziale dentro, che ha a che fare con l’abbandono, uno stigma indossato come generazione. Ecco, ho scritto un’altra cosa che mi infastidisce. Sì, perché io non riesco a capire i romanzi generazionali, la brama di averne tra le mani uno, e Menodramma, in questo, è fortunatamente salvifico. L’appartenenza a un’epoca comporta la pretesa di esistere in una migliore delle altre – la generazione per l’appunto – ma Maria Castellitto questo lo scrive benissimo, perché noi, se stringati in una definizione, fuggiamo. Io, almeno, non conosco l’appartenenza.
A Duna, la voce narrante, interessa la singolarità, la differenza che uno solo può apportare, slegato da tutto: Duna è un io passato-presente-futuro che si fa fatica a fermare, che sente l’altro come continuazione di sé e, per questo, non può lasciar correre via nulla.
In una Londra che si scandisce e divide nel netto sincopare di giorno e notte, Duna incontra una serie di persone, un corollario umano che la riempie e la svuota. Fin quando, sul Blackfriars Bridge, nella notte peggiore di sempre, un uomo non le chiede qualcosa di assurdo. E tutto cambia.
Mamma sceglieva di chiamarmi Duna, per via del viso che diceva essere di un tondo perfetto. Ma le dune sono accumuli sabbiosi modellati dalla forza dei venti. Non scelgono nulla, vengono spostate. La gente che ci va le fotografa e poi le abbandona. Non ci si può vivere
Il libro è pervaso dalle dune – che sono questa cosa qui, precisa e intensa: leggere il tempo come alternativa alla comprensione dell’abbandono. Perché siamo fatti di vuoti, di cose che non capiamo.
Castellitto lo scrive in modo cesellato, con stile da anacoreta, da giovane asceta che riesce a chiarificare una sensazione con cui spesso si fa fatica: un annientamento lento e segreto, una malinconia che cova e che è parte viva, senza sapere da dove arrivi, come sia finita dentro di te.
E avverto il timore di toccarmi le spalle; le scoprirei scoperte e ferite, senza sapere indicare il pugnale che mi ha colpita, come una testimone inattendibile della mia sofferenza
E cresce e gonfia quell’idea che è maremoto, che sarebbe giusto finirla qui. Una soluzione perfetta, pensata, consona a quel parassita che si aggrappa da dentro. Ma, se c’è un’altra cosa che questa storia racconta benissimo, è che la vita arriva ed è crudele e violenta e forse masochista. Eppure necessaria. Ti fiuta la paura e ti scova. E solo tu puoi leggere quello che ti capita come salvezza estrema, o come perdizione definitiva.
Duna guarda gli altri, sempre. Li racconta. Mentre nella sua testa c’è una fiumana che collassa con l’enorme sentire che ha e che non si posiziona. Così, lacera. E questo è un altro modo per imparare a esistere: conoscere gli altri e il loro dolore, ma solo attraverso il nostro, tra le cose che conosciamo fino all’ultimo granello e poi ci lasciano impreparati, possiamo guardare al timore di essere finiti.
Così, leggo ancora e il fastidio non c’è più, né il mio, né quello di Duna. Ché mentre vado avanti penso che mi senta, mi comprenda, in quei dettagli in cui mai vorrei essere stanata, ma mai lasciata all’agghiaccio. È tutto sempre teso in questi due estremi – lo sconosciuto che separa la morte e la vita – sparsi in quell’abisso che viviamo e che, chissà come, sa sempre muovere la sabbia, comporre altre dune. È il vento che taglia, il deserto che lascia attoniti, una fame di restare vivi senza sapere come farlo. Noi e le nostre scelte.
Io non sono la massa, poco prima della sua estinzione. Non mi lascio toccare. Io sono la distanza. Io sono il vuoto che rimane quando la massa si scompone e ognuno rincasa. Quando un solo uomo si affida a una sola donna. Ho fatto sparire un uomo. Anch’io sparirò. Nell’attesa, non posso più avere timore di vivere
Così chiudo Menodramma, lo ringrazio per il fastidio. Proprio quando cominciava a somigliare a una qualche specie di comodità, come sempre, è arrivata l'ora di andare.
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