L’illusione non si mangia, ma alimenta.
L’ampia produzione letteraria di Gabriel García Marquez annovera, oltre ai noti Cent’anni di solitudine e L’amore ai tempi del colera, anche molti altri capolavori. Fra questi spicca Nessuno scrive al colonnello, appartenente ai suoi anni giovanili, che con le sue 77 pagine si trova in bilico fra la novella e il romanzo breve.
Il vecchio militare in attesa di una pensione che non arriva mai, e che sacrifica perfino i magri pasti per allevare un gallo da combattimento da cui si aspetta soddisfazioni e guadagni, appartiene a quella galleria di indimenticabili ritratti di cui è ricco l'universo di Macondo. La sua eroicità semplice e solenne, la sua profonda, dolente verità umana ne fanno uno tra i personaggi più riusciti del grande Gabo.
Il protagonista del libro, Aureliano Buendía, (embrione dell’omonimo colonnello in “Cent’anni di solitudine”) è un colonello che ha partecipato alla guerra civile e che aspetta da quindici anni la pensione per reduci di guerra. Ogni venerdì si reca al porto di Macondo ad attendere il battello con il carico postale, ogni venerdì torna a casa mani vuote. Non c’è mai nessuna notizia per lui, nessuna busta contenente la pensione: nessuno scrive al colonnello.
Eppure, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, Aureliano Buendía non è affatto un personaggio frustrato o privo di speranza: al contrario, la speranza è l’unica cosa che lo tiene in vita. La speranza nella pensione come già detto, ma soprattutto quella nel gallo da combattimento di suo figlio Agustín, ucciso dalla polizia proprio nell’arena dei galli per aver distribuito stampa clandestina.
Il colonnello è pronto a rinunciare al suo cibo pur di sfamare il gallo, non solo perché è l’unico ricordo che gli resta di suo figlio, ma soprattutto perché è convinto che, ai prossimi combattimenti, quel gallo vincerà. Deve vincere. Quindi anche se molti abitanti del paese sarebbero disposti a comprarlo, e a pagarlo bene; anche se questo potrebbe salvare lui e sua moglie dalla miseria, lui rifiuta sempre.
L’animale rappresenta dunque l’emblema della fiducia cieca e incrollabile del colonnello, disposto a vendere persino l’orologio e i mobili della casa per avere di che mangiare, ma non il gallo. La moglie, malata d’asma, bilancia la fede ingenua del marito con grande razionalità e pragmatismo, cercando inutilmente di convincerlo.
“Non hai pensato che il gallo può perdere” disse la donna.
“È un gallo che non può perdere”
“Ma supponi che perda”
“Mancano ancora quarantacinque giorni prima di cominciare a pensarci” disse il colonnello.
L’illusione del colonello unisce una grande amarezza ad un’estrema dignità. Anche se è malato, anche se non ha soldi nemmeno per mangiare, non si lamenta ne chiede mai favori a nessuno, e sua moglie arriva a far bollire dei sassi, per non far capire ai vicini che non c’è niente da mettere in tavola.
Il loro pudore e il loro attaccamento alla vita sono tanto teneri quanto profondamente malinconici, tanto che il lettore non può non sentirsi chiamato in causa, non può esimersi dallo sperare insieme a loro, contro ogni probabilità, che un giorno quella pensione arrivi, che un giorno quel gallo vinca.
Che un giorno, finalmente, finisca quella straziante attesa.
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