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Noi inarrestabili di Yuval Noah Harari

Quando frequentavo il liceo, il professore ci interrogava facendoci tradurre dal greco, in piedi accanto alla cattedra, direttamente dal libro, ed era necessario coprire le note in fondo alla pagina con una cartolina. Così, mentre a spanne cercavo di dare un senso al testo che stavo leggendo – deinos, cosa vorrà mai dire? – sotto, sulle note, una cartolina con lo scatto del bacio di Doisneau restava sulla soglia di un sentimento non traducibile del tutto. Ma ai tempi l’importante sembrava portare a casa una sufficienza, e non avevo colto quanto, in quel momento, ci fosse di correlato alla natura umana: tradurre.

Noi umani non siamo forti come i leoni, non nuotiamo bene come i delfini, e di certo non abbiamo le ali! Allora come siamo arrivati a diventare i signori del pianeta? La risposta è una delle storie più strane che si possano ascoltare

Potremmo misurare la nostra esistenza nel tempo speso a tradurre e a tradire. A tradurre in parole i pensieri e le emozioni, per quanto si pensi sia possibile o meno; e nell’essere fedeli oppure no a una tradizione, dentro alla quale, come l’acqua del mare per i pesci, ci troviamo a respirare, consapevolmente o meno. Tradimento, tradizione, traduzione: tutte queste parole hanno una radice etimologica comune. Questo fatto – l’istinto atavico alla narrazione, che ci riguarda tutti e non è affatto una mera questione filosofica – è una costante dell’essere umano: è nascosta nella dichiarazione universale dei diritti umani come nella lista della spesa, piegata a metà e tenuta in tasca.

Ci sono molte cose che non sappiamo del passato, e quando non sappiamo qualcosa è sempre meglio dire: “Non lo so”. Nella scienza dire “non lo so” è fondamentale. È il primo passo, perché solo dopo che hai ammesso di non sapere qualcosa puoi cominciare a cercare una risposta. Se pensi di sapere già tutto, perché perdere tempo a cercare?

Se per i greci, e nello specifico per Sofocle, l’essere umano è deinos, parola – appunto – intraducibile, che significa sia meraviglioso sia terribile (la troviamo nella tragedia dell’Antigone), tuttavia questa difficoltà di traduzione non ci ha impedito di prenderci il mondo, come leggiamo nel sottotitolo dell’ultimo libro di Harari. Perché sì, ci siamo presi il mondo; ma, in fondo, non sappiamo precisamente chi siamo. Qualcosa di noi – della specie umana – sappiamo, ma non sempre ce ne ricordiamo. Allora ecco il libro di Harari che è stato concepito per gli adolescenti, ma che ogni adulto dovrebbe leggere almeno una volta nella vita. È vero, ci sono le illustrazioni: tradizionalmente siamo portati a pensare che questa sia la prerogativa di un libro per una certa fascia d’età. E invece quelle illustrazioni sono un ulteriore tentativo, accanto alle parole, di tradurre questioni che ci portiamo dietro e dentro da quando siamo su questo pianeta.

Il nostro superpotere è qualcosa che usiamo di continuo, ma pensiamo che non sia nulla di eccezionale. Molti lo considerano addirittura una debolezza. È – rullo di tamburi, per favore! – la nostra capacità di inventare cose che non esistono nella realtà e di raccontare qualsiasi tipo di storia immaginaria. Siamo gli unici animali che possono inventare leggende, fiabe e miti, e crederci

Forse il bacio di Doisneau su quella cartolina è stato a costruito ad arte, una storia immaginaria, eppure è l’eco di qualcosa che ci riguarda; forse se avessi potuto leggere prima – da ragazzo – il libro di Harari, mi sarei sentito meno solo, di fronte alla parola deinos e a quel testo da tradurre dal greco, e probabilmente non avrei avuto bisogno di barare, sbirciando di nascosto, sotto alla cartolina, le note al testo. Il libro di Harari è un regalo perfetto, per un adolescente che naviga a vista oppure per un adulto ai giri di boa della vita; ci ricorda come siamo diventati umani e suggerisce una cartografia precisa su come tracciare una rotta alla scoperta di ciò che ci accomuna tutti: da dove veniamo, e dove dobbiamo scegliere di andare.

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