Per noi, definiti la generazione dei fallimenti e dei falliti.
Per noi, frutto di un paese che ha smesso di crescere. Per noi, frutto di una comunità di individui spettatori.
Il desiderio di farsi voce della storia, mentre la storia sta avvenendo; analizzare e tradurre la realtà sociale e culturale del nostro paese e renderla fruibile ad un pubblico giovane, non necessariamente avvezzo al linguaggio della politica italiana.
Flavia Carlini è, come lei stessa si definisce, una voce indipendente: influencer seguitissima sui social, parla di politica e di temi di attualità alla generazione Z – e forse anche un po’ ai millennials. Del resto lei, ventisette anni originaria di Napoli, è un po’ a cavallo fra queste due generazioni e ha sentito lo smarrimento di ritrovarsi in un sistema sociale che sembra non avere spazio per l’accoglienza.
Cosa significa abitare un Paese dove i diritti non vengono rispettati? Cosa significa abitare uno Stato che si racconta come il più civile tra gli altri? Cosa significa essere una donna oggi? Che ruolo gioca l’informazione in questo contesto? Tutte quelle che leggerete in queste pagine sono storie vere. Storie di corpi schiacciati da altri corpi.
In Noi vogliamo tutto (Feltrinelli) la voce di Carlini, che scrive a riparo dal passato, decide di narrare gli episodi che l’hanno riguardata in prima persona, perché così la memoria – come lei stessa afferma - diventa filo rosso che la conduce alla scoperta del mondo. Ogni capitolo si riaggancia ad un ricordo e tratta una tematica che ha interessato la vita dell'autrice: violenza di genere, malattia, violenza sessuale e molto altro.
Così Carlini ci porta nell’azienda in cui lavora, teatro di misoginie e repressione personale. Un ambiente tossico in cui viene giudicata per il suo abbigliamento, per il trucco; corridoi in cui sibila la paura delle donne per i commenti dei capi, dei manager con gli occhi guizzanti e le mani lunghe.
“Valorizzarsi” mi appare oggi una catena corta e stretta come un laccio emostatico (…) continuo a chiedermi, mentre ormai sono zuppa di pioggia fino ai piedi, quale sia il confine tra valorizzarsi e adattarsi, tra valorizzarsi e limitarsi, tra valorizzarsi e imprigionarsi.
Realtà di tutti i giorni che le donne - e in questo Carlini è molto brava a fornire dati e numeri precisi - soffrono senza protestare; impalcatura di una società patriarcale in cui se sei donna e vuoi fare carriera ci sono delle cose che devi fare, prezzi da pagare, occhiate a cui devi sorridere.
Una parabola discendente di dolore, abbruttimento, frasi trattenute in gola mentre il corpo implode, s’accartoccia perché fa male, perché dentro c’è qualcos’altro che pulsa, non solo la paura per il mondo di uomini in cui vive.
È l’endometriosi. Una malattia che Flavia Carlini ha sempre sospettato di avere ma che nessun medico è stato mai in grado di diagnosticarle – come a lei così come a milioni e milioni di donne italiane, che soffrono in silenzio il gap medico riguardo le malattie silenziose come l’endometriosi.
Ne ha ventisei quando i social le vengono in soccorso e decide di recarsi dall’ennesimo ginecologo, che questa volta le da’ il responso che aspettava da tempo: e lei si sente sollevata, solo perché adesso ha il diritto di stare male, il potere di dare un nome alla sua malattia e al suo dolore costante. Ha il diritto di essere malata.
Una storia di violenze psicologiche che culmina, purtroppo, in una violenza; mani che afferrano lembi di pelle che non è necessario toccare, le lacrime trattenute, la voce rotta e il pensiero: è un medico, sta facendo solo il suo lavoro. E anche: non è questa una violenza, pensa a chi è stata davvero una vittima.
Ma Flavia è stanca di subire e decide di parlare, di farsi politica, la sua voce e il suo corpo. Di legittimare la sua storia e il suo vissuto e farne un atto di resistenza.
Vi sono, all’interno del libro, degli assunti imprescindibili, capisaldi della narrazione e del pensiero politico di Carlini che si riannodano ad ogni capitolo: necessità di manifestare, di farsi resistenza attiva e in questo modo di farsi politica: un’idea forse ripresa da Judith Butler – che la Carlini stessa riporta nella sua bibliografia critica alla fine del volume, che vi consiglio di sfogliare per recuperare delle letture fondamentali su varie tematiche sociali e culturali -.
Butler, nel suo saggio L'alleanza dei corpi. Note per una teoria performativa dell'azione collettiva, indaga il concetto di apparizione del corpo – dalla sua celebre teoria della perfomatività – all’interno del campo politico, mediante manifestazioni e raduni collettivi. Secondo Butler, è proprio l’apparizione dei corpi alleati a sottolineare la loro reale invisibilità nel discorso politico, sociale e culturale.
Ebbi terrore che in un momento potesse risapersi la verità, che io amavo, che io avevo amato Ariele, il divino parente, il meraviglioso cugino, di cui già, forse, era innamorata qualche principessa, che già, forse, era fidanzato con qualche regina. Mi parve che tutti, sì, tutti, dovessero già essere a parte di tanto segreto, che solo di ciò tutti fossero sì arcanamente tristi e preoccupati.
Un concetto molto interessante che Flavia Carlini riporta attraverso la sua esperienza personale, durante le manifestazioni contro il sistema sanitario e l’invisibilità – di nuovo – di certe malattie, croniche e invalidanti, come l’endometriosi; e di nuovo durante una protesta a seguito della morte di Lorenzo Parelli, uno studente morto sul lavoro l’ultimo giorno del progetto alternanza scuola-lavoro.
Rabbia e resistenza non solo come occasione di alzare la voce – di fare casino, come afferma la stessa Carlini – ma per un progetto democratico che porti alla visibilità, alla denuncia di situazioni inafferrabili e incomprensibili.
Il corpo che si fa politico e la politica che riscrive il corpo. Ne è un esempio il potente capitolo in cui Carlini riporta un dialogo avuto con una ragazza italiana di origini indiane, nella sala d’attesa dell’ospedale. La ragazza le racconta la sua storia, fatta di sofferenze fisiche e psicologiche: per anni era stata convinta d’avere una malattia inguaribile, piaghe purulente e dolorose per tutto il corpo che nessun medico si riusciva a spiegare. E invece era solo un eczema, che nessuno però era stato capace di riconoscere. Il motivo? La sua pelle è più scura di quelle che si vedono sui libri di dermatologia, e nessuno dei medici aveva mai studiato une eczema sulla pelle nera.
Una presa di coscienza dolorosa su cui Carlini, vittima anch’essa di anni di malasanità, riflette a lungo:
Il mio corpo, e il suo più del mio, sono terreno politico nel momento in cui sul mio corpo e sul suo corpo e sul tuo corpo di riproducono quelle dinamiche di potere tutt’altro che esclusive e casuali. Qui si tratta di comprendere che le dinamiche di potere, seppur in modo diverso, si riproducono sui corpi di ognuno di noi e che, nella maggior parte dei casi, ne siamo totalmente ignari.
Un ricordo che rincorre un altro, e di nuovo Carlini ci trasporta in strada, di fronte al consolato dell’Iran, a manifestare insieme agli iraniani per le condizioni politiche e sociali attuali, per un paese che scivola sempre di più nel baratro dell’isolamento. Qui conosce V., un’ex guida turistica iraniana vittima per anni delle minacce e dei soprusi della polizia segreta. E secondo V. la colpa della situazione del paese non è solo del popolo che non si ribella – che non si fa visibile, che non resiste -; la colpa è anche e soprattutto dell’Occidente, di quella porzione di mondo che per secoli ha giocato con i paesi del sud come pedine per gli scacchi. Per una realtà che è sempre stata presentata come il migliore dei mondi possibili, a discapito della metà dell’altro mondo, che implode.
Una cosa che ho imparato e su cui non ho più dubbi è che in una storia a più parti l’assenza stessa di una delle voci dovrebbe far sorgere qualche dubbio in chi ascolta (…) ma, nell’arroganza globale, questo non è contemplato.
Per renderci indelebili, in questa piazza (...) che deve oggi diventare luogo politico delle nostre rivendicazioni perché non c'è cambiamento senza verità e non c'è futuro senza memoria.
Rabbia e dolore individuale che si fanno - devono farsi - rabbia e dolore collettivo: una condivisione della propria storia che Carlini fa per farci forse comprendere che ogni storia merita di essere ascoltata perché interconnessa a quella di qualcun altro: alla mia, alla sua, alla nostra. In un mondo che ci vuole sempre connessi, è necessario fermarsi ad analizzare il panorama politico, sociale e culturale in cui siamo immersi e fare una riflessione più profonda, che vada alle origini del sistema statale e culturale e lo ribaldi - almeno nella teoria - per ritrovare nuovi spazi di condivisione, di empatia, di ascolto.
Un volume necessario che i più giovani - maschi e femmine - dovrebbero leggere; ma forse non solo, anche chi di anni ne ha un po' di più e lamenta che le nuove generazioni non abbiano la voce giusta per esprimersi.
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