Ce lo ha presentato Paolo Sorrentino nella scena iniziale del film È stata la mano di Dio: un bambinello vestito da frate che a Napoli tutti chiamano 'o munaciello.
Figura tradizionale del folklore napoletano, il monaciello è rappresentato come un bambino dispettoso che abita ambienti diroccati e angusti. Ne aveva parlato anche Matilde Serao in Leggende Napoletane.
Anna Maria Ortese ne tratta in questo racconto, originariamente pubblicato sull'Ateneo Veneto nel 1940, riportato alla luce da Adelphi in questa nuova edizione del 2024.
Tu non vedrai mai, credo, quella Napoli in cui vissi nei primi anni della mia vita.
Il racconto lo fa un giovane che ha, come missione, quello di narrare la vita di sua nonna, la napoletana Margherita Di Gasparre. E il narratore senza nome restituisce proprio a lei la parola, attraverso un racconto che sua nonna gli fece da bambino: la storia del monaciello, figura mitica ma realmente esistita nel passato della città di Napoli. Un ragazzino sporco dal nome di Nicola che diventerà marito di Margherita e nonno stesso del narratore.
Il monaciello della famiglia Di Gasparre, così come tutti gli altri monacielli del quartiere, sta a servizio delle ricche famiglie napoletane vivendo gli ambienti diroccati dei palazzi, in un insieme di miseria, di abbandono, di malinconia. Nicola abita l'armadio spoglio che era stato quello della zia di Margherita, sua protettrice ora scomparsa.
Nessuno in casa bada a lui se non quella bambina che per lui sente una dolcezza estrema. Così Margherita fa del benessere del monaciello la sua ragione di vita, la maternità diventa per lei una vocazione, lei che di anni ne ha appena dieci.
Monaciello, scugnizzo malinconico e dispettoso è il protagonista del primo racconto di questo volume, mentre il Fantasma servizievole e triste, che non è altro che la morte, ci accompagna nel secondo racconto.
La scrittura giovanile della Ortese è quella che riconosciamo nelle lettere all'amica Mattia, Vera gioia è vestita di dolore (ve ne avevamo parlato qui): vi è lo stesso desiderio di parlare dell'altro, di cogliere il diverso, di rappresentare una realtà obliqua con uno sguardo lungo sul passato millenario che la sua città le offre. E lo fa attraverso un realismo magico - così il suo stile sarebbe definito, se anziché a Napoli le sue opere fossero ambientate in Sud America - che anima i miti e le leggende di Napoli dandogli compattezza e un risvolto, minimo, di critica sociale.
Ciò che Ortese ci restituisce è infatti il dipinto di una Napoli decadente, antiche famiglie ricche che abitano immensi castelli e si reggono su tradizioni stinte, su esserini minuscoli e dispettosi che abitano le rovine e sovvertono gli equilibri. Una fabula agrodolce in cui il sogno si mischia con il ricordo: è forse davvero esistito Nicola, il monaciello, il nonno, l'eterno spirito che abita gli armadi?
Io le tenevo la faccia contro le piccole gambe, e immaginavo come doveva essere stato felice il piccolo Nicola. Ma dov’era più questi? Era forse esistito? Perché la Nonna continuava a guardare nel rossore cupo del tramonto la pianura deserta?
«Nonna, parlami ancora di Nicola... ».
La sua voce era un soffio, una cosa strana.
«Figlio mio» riprendeva piano.
Il tema del sogno evoca il secondo racconto della raccolta, pubblicato negli stessi anni sulla rivista Nove Maggio: Il fantasma, una scena da salotto in cui Morte e Amore s'incontrano e tessono i fili dell'esistenza della narratrice.
La giovane, il giorno del suo compleanno, assiste incredula all'evocazione di un ricordo, del passato, di una dimensione alternativa, in cui compaiono i suoi bellissimi Parenti: il defunto zio Alberto e i suoi due cugini, mai nati e mai conosciuti. Lontanissimi da lei seppur vicini, i due ragazzi sono solo un pensiero dello zio, nati dal suo cuore e lontani dalle cose della vita vera. Innamorata di un principe che non è mai nato, Ines; innamorato di lei Ariele, e lei di lui, pur avendolo dimenticato.
Ebbi terrore che in un momento potesse risapersi la verità, che io amavo, che io avevo amato Ariele, il divino parente, il meraviglioso cugino, di cui già, forse, era innamorata qualche principessa, che già, forse, era fidanzato con qualche regina. Mi parve che tutti, sì, tutti, dovessero già essere a parte di tanto segreto, che solo di ciò tutti fossero sì arcanamente tristi e preoccupati.
Ma un amore pensato è un amore impossibile; la Morte, vestita da cameriere, tenta di ingannare la narratrice. La convince a strappare la Marcia Nuziale scritta dallo zio quando era ancora in vita, origine e gestazione dei suoi due figli. Ma la Morte deve infine piegarsi all'amore, al sogno, al futuro impossibile.
Così la protagonista tenta di afferrare l'amore; ma Ariele è tutto, Ariele è il mondo. E di nuovo ritroviamo tutto l'amore che Ortese prova per l'esistenza - scrive in tempi di guerra, minata dai lutti familiari e dall'incertezza del futuro -.
Una scrittura sempre in bilico fra realtà e finzione, veglia e sogno: la dimensione onirica prende consistenza nelle parole di Anna Maria Ortese, un mare - come quello che non bagna Napoli - in cui affondano i sentimenti e la fatica dell'esistenza: un corpo celeste al centro della sua poetica che, ancora oggi, risuona con echi di presenze, rimandi, ricordi.
Sentire, sentire, sempre più sentire. Io non desidero altro.
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