Lui è stato un uomo degno e miserabile come me. Né migliore né peggiore. Identico nei suoi limiti; diverso nei suoi volti. Scrivendo di mio padre scopro quanto l’ho amato e quanto mi manca, ma anche quanto male mi ha fatto. La nostra storia è l’ennesima variazione su un tema inesauribile: le strade che prendono i rapporti tra padri e figli per giungere a conquistare una sorta di indifferenza, di patto tra adulti, in cui la vita, bene o male, trova un bilancio definitivo dove il dare e l’avere tendono a equivalersi.
Si può immaginare Ricardo Menéndez Salmón con una torcia in mano, quasi scarica, in una grande grotta buia, mentre scrive questo memoir (edito da Marcos y Marcos). Un’oscurità in cui l’unica possibilità di contatto con il dolore sono le parole. La luce sembra flebile già nel titolo del libro, tratto da un verso di Dylan Thomas.
Un romanzo in cui Ricardo Menéndez Salmón si apre al lettore raccontando la relazione con il padre gravemente malato, l’influenza che questo ha avuto nel rapporto con il suo corpo e soprattutto con la sua scrittura.
In quella stessa poesia, Thomas invoca suo padre attraverso un maledicimi e un benedicimi: gli antipodi indissolubili di uno dei rapporti più navigati della letteratura, l’odissea che lega da sempre padri e figli dà il ritmo alle pagine. L’autore ritrae il padre nel suo acume e nelle sue miserie, lo contempla come un Icaro pronto a cadere nella battaglia con la morte – un uomo che non ha mai investito nelle ali di cera della vita ma ha lasciato sé stesso in procinto del fuoco, molto prima di provare a spiccare il volo.
Menéndez Salmón, invece, non cade. Non cede mai nelle trappole della retorica e dona all’assenza di suo padre una veste inedita: dalla sua perdita ricerca le ragioni profonde che lo portano a scrivere. Sono afflati continui le vite degli altri per chi si staglia contro la pagina bianca. Così l’autore sceglie di immergersi nei trent’anni che hanno separato il primo infarto del padre dal momento della sua morte, come una fiammella pronta a divampare. Trent’anni che hanno reso la famiglia pronta a una scomparsa imminente, una famiglia che ha scandito il suo tempo in attesa della fine e mai in ode alla vita. È la rabbia di conoscersi vittima dei drammi dei genitori, l’egoismo che porta i figli a dirsi diversi, mai avvicinabili a ciò che i padri hanno sbagliato: l’idillio di sapersi su strade lontane, eppure in una direzione percorsa che non dovrebbe riportare così bene alla strada di casa.
Menéndez Salmón rinnega suo padre e lo scopre e lo accoglie e lo rifiuta e lo avvicina e, soprattutto, aspetta. Aspetta perché questa non è una promessa d’addio, non è mai stata questo. Se l’amore che l’ha legato a suo padre è stato vivo, è stato più di tutto luce. In questa prosa che prova sempre a essere analitica e filosofica, c’è il tradimento della sofferenza non ragionata, istanti piccoli di scrittura che aprono alla potenza di questo libro. Una deflagrazione che incombe sui dolori di chi legge, in cui è difficile, anche solo per un po’, non cercarsi. L’accensione che ha preparato lo scrittore, per fare della sua arte ciò che può fare meglio: tenere in vita.
E intanto, con ansia e pazienza, tempero le mie matite abbozzando una grammatica del cuore, una genealogia ragionata, un gruppo tassonomico in cui inquadrare la mia biografia. C’è un clima di elegia nell’aria. Non solo per il morto che segue il corso del fiume, già insensibile al rimorso, ma per il vivo che sulla sponda, con la bussola smagnetizzata e i quaderni coperti di appunti, cerca disperatamente di portare in salvo il cadavere che passa
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