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Racconti romani di Jhumpa Lahiri

«A lui piacerebbe vivere qui per sempre.» «E a te?» Aveva fatto spallucce. «Per sempre è una parola grossa.»

Raymond Carver, padre controverso di una certa corrente letteraria, suggerisce, nel Mestiere di scrivere, quando si scrive un racconto, di far accadere le cose. Un consiglio se vogliamo non troppo complesso da seguire né misterioso, salvo poi leggere la sua produzione e accorgersi che le cose che accadevano erano cose piccolissime (ma buone, verrebbe da citare) e quasi impercettibili. E per quanto quest’affermazione appaia banale agli occhi dei più, leggendo i Racconti romani di Jhumpa Lahiri ci si accorge che così non è. Perché in questa raccolta, per nove volte, non succede niente. E, allo stesso tempo, tutto.

I racconti di Lahiri sono finestre, talvolta feritoie, su dei mondi che funzionano per conto loro e in cui noi sbirciamo per minuti, oppure giorni, oppure per una vita. Ma sono finestre che l’autrice sembra aver aperto per caso, come se qualcuno venisse a osservare le nostre, di vite: se lo spettatore è fortunato, vedrà qualcosa di entusiasmante; se non lo è, si godrà una quotidianità semplice, tutto sommato comune, per quanto possa esserlo la vita di un essere umano.

Racconti romani
Racconti romani Di Jhumpa Lahiri;

Nove racconti che tratteggiano una città metafisica, in cui uomini e donne si muovono inquieti come in uno spazio aperto ed evanescente. Lahiri racconta le storie di persone comuni alle prese con la vita di tutti i giorni, una delle esperienze più difficili da superare.

I personaggi di ogni racconto vivono a Roma. È una delle poche cose che hanno in comune gli uni con gli altri. L’altra è il fatto di essere «stranieri». Non si dice da dove arrivino, solo che parlano una lingua diversa e che magari sono arrivati da poco, o da tanto, che non conoscono bene la città, o la conoscono bene. Che la amano, o la odiano. Il nome, Roma, compare di rado: ci si accenna perlopiù, magari con il bar dietro il Colosseo, o con un appuntamento su ponte Sisto. E su tutto regna la calma. Anche in mezzo al traffico e alla folla, ci si ritrova in una città placida, in cui forse succedono davvero le cose, ma non mentre stiamo guardando.

Roma diventa uno spazio, un luogo dove spostarsi e stare fermi. Incombe, più che comparire. Il nome basta a creare un mondo che ognuno si immagina in modo diverso, ma l’importante è, appunto, immaginarselo. Si prova, leggendo i Racconti romani, una sensazione di angoscia e inquietudine, che solo a una seconda lettura se capisce da dove provenga. Certo dalla città, si diceva. E anche dall’essere stranieri dei protagonisti, perché in loro alberga sempre un senso di spaesamento. Non per tutti questa condizione è penalizzante, ma ognuno dei personaggi ha in sé la percezione di essere apolide: la città non riesce a essere una casa, per loro.

Ma l’inquietudine arriva anche da un altro fil rouge che lega tutti gli attori del racconto: il tempo. Sia il passato sia il futuro sono motivo di paure: nel Confine, il padre della protagonista è sdentato perché è stato picchiato da una banda di ragazzini, mentre nelle Feste di P. è il futuro a spaventare, quello dei figli, e quello dei genitori. Alle volte il passato è bello, e si prova nostalgia, ma nasconde dei fantasmi, e il futuro accoglie infinite possibilità, ma sono troppe e troppo grandi per i piccoli esseri umani che devono coglierle.

Ricordavamo, ognuno per proprio conto, le nostre vite di prima, vite ancora da realizzare, vite ridicole, arrangiate, splendide

Un racconto dopo l’altro, la sensazione angosciosa permane. Ma è compensata da una voce che splende, quella di Lahiri, che dipinge, canta, danza, non scrive soltanto. Fa accadere le cose a modo suo, cioè senza caricare la mano, scardinando tante regole della nostra letteratura. Il risultato è che i suoi racconti sono molto più simili alla vita che alla letteratura. Ed è con la consapevolezza che le nostre esistenze sono fatte così che siamo chiamati, nei Racconti romani, a fare i conti.

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Conosci l'autrice

Jhumpa Lahiri è nata a LOndra da genitori bengalesi. Cresciuta negli Stati Uniti, ha vissuto a New York e attualmente si è trasferita a Roma.È membro del President's Committee on the Arts and Humanities, nominato dal Presidente Barack Obama.È autrice di: Interpreter of Maladies (1999) tradotto e pubblicato in Italia da Marcos Y Marcos con il titolo L'interprete dei malanni (2000), con il quale ha vinto nel 2000 il Pulitzer Prize for Fiction; The Namesake (L'omonimo Marcos y Marcos, 2003), da cui il film; Unaccustomed Earth (Una nuova terra, Guanda, 2008); The Lowland (2013, La moglie, Guanda), finalista al Man Booker Prize 2013 e In altre parole (Guanda, 2015). Nel 2018 Guanda ha pubblicato il suo primo romanzo scritto direttamente in italiano, Dove mi trovo.

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