A volte l’infelicità fa dimenticare alle persone di essere parte di qualcosa di più grande, come una famiglia, un popolo, oppure una tribù
Sono queste le parole con le quali il padre spiega a Sierra il perché la madre li abbia lasciati nel primo racconto di questa amara, dolce, a tratti malinconica, ma soprattutto splendida raccolta di racconti. L’infelicità è il motore per il quale una giovanissima donna lascia il calore della casa materna e con la figlia si trasferisce in una California che di avvolgente ha solo la luce del sole e dove l’infelicità è anche la cosiddetta malattia degli spiriti, nella cultura navajo, causata dall’assenza della persona amata. È sempre l’infelicità a spingere Sabrina tra le braccia di uomini ogni volta più pericolosi, perché la violenza è un’altra costante di questi racconti: quella non premeditata che ruba la vista a Doty, o quella che Tomi vede infliggere alla zia da sua madre, ma anche quella di quartiere, alla quale l’anziana Pearla reagisce in un modo letale e tragico.
Le protagoniste di Fajardo-Anstine, donne magnetiche, lontanissime dai miti bianchi del West, incrinano i modelli femminili di moglie, madre, figlia imposti da un patriarcato opprimente quanto ormai svuotato, e vi oppongono una sorellanza che trae origine dal sangue, da riti familiari e antichi rimedi tramandati di generazione in generazione, e un genere di amore che prescinde dai ruoli ma si rivela più sincero, che non è àncora di salvezza ma sostegno, che aiuta a tenersi a galla in una Denver in bilico tra il passato dei nativi e la nuova gentrificazione.
Ma la vita delle ragazze raccontate in Sabrina & Corina non è segnata solo dall’assenza, anzi, la comunità è fonte di conforto nonché di sicurezza, come nell’affidarsi alle cure e ai rimedi degli anziani, perché il loro aver vissuto dimostra la possibilità di uscire dai turbamenti della giovinezza e raggiungere nella maturità una sorta di serenità: “È stato il mondo. È diventato meno pressante, più grande in un certo senso, e non mi sono più preoccupata tanto di essere amata.”
Questi undici racconti, solo mostrandoci alcuni momenti di una persona, riescono a farci entrare pienamente nella sua vita e l’importanza emozionale, più che culturale, del retaggio chicano la si percepisce nel giro di poche immagini. L’estremo equilibrio nelle scelte stilistiche e nel soppesare i singoli accadimenti da riportare permettono al lettore di entrare e uscire dalle diverse storie.
Amo moltissimo la forma breve in letteratura perché, in quanto lettrice bulimica che si fa affascinare dai personaggi e travolgere dalle storie, riesco a focalizzarmi sulla scrittura, sul lavoro di una scrittrice o di uno scrittore, e Kali Fajardo-Anstine riesce ad alimentare con uno sguardo nuovo, che però non perde di vista il passato, il canone del racconto: ha l’empatia di Alice Munro nel descrivere l’universo femminile, il caldo distacco di Raymond Carver nel fotografare la quotidianità, la malinconia di Andrè Dubus nell’osservare le relazioni e la generosità di David Leavitt nell’accogliere tutti gli aspetti dell’umanità, ma aggiunge a tutto ciò lo sguardo della sua comunità, uno sguardo potenziato da quello che all’esterno viene percepito come alterità, folklore, mentre invece arricchisce di voci, punti di vista e sfumature persino la storia più semplice.
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