C’è un uomo sensibile e sottile, dal mondo lo separa un guscio. Un marito-padre-insegnante friabile come un uovo, anzi di più: un uomo che ha pensato di esserlo sul serio un uovo, una volta, da ragazzo, e lo ha detto a voce alta, e dicendolo si è guadagnato il primo ricovero in ospedale. Poi c’è una figlia, che deve imparare come si fa a gestire i vuoti dopo il suicidio di lui. Fin qui i libri non c’entrano, parliamo di vita. A un certo punto però i libri arrivano, perché questa figlia è Miriam Toews, scrittrice, voce abituata a scavalcare l’oceano dal Canada, e quel padre è suo padre, Melvin Toews.
Quando lui si toglie la vita, lei si rintana nel gesto che le viene meglio: scrivere. Scrive tutto, dal principio. Viene fuori Swing Low, che ha il titolo di uno spiritual afro: swing low, sweet chariot, comin’ for to carry me home cantava chi, nell’America di metà ’800, invocava la libertà, la fine della schiavitù, la fuga verso casa.
Uscito nel 2000, Swing Low raggiunge i lettori italiani nella traduzione di Maurizia Balmelli soltanto lo scorso gennaio. Lo pubblica Marcos y Marcos, casa editrice affezionata all’autrice, di cui completa la bibliografia. E che arrivi tardi, carica di senso tanto il “cosa” quanto il “come”, perché ogni riga rivela qualcosa di intimo, famigliare, e il libro non è che il tentativo di una figlia di smentire un genitore, di scendere dentro il «fallimento totale» che diceva di sé stesso. Una delicatissima prova d’amore.
Quando Mel, a diciassette anni, si convince di essere un uovo, gli psichiatri non scommetterebbero un centesimo sul suo futuro. Decretano 'psicosi maniaco-depressiva' e prescrivono montagne di farmaci. Eppure Mel riesce a sposare Elvira, vulcano di vitalità e progetti, a diventare un insegnante geniale e amatissimo, a crescere due figlie con personalità spiccate, a coltivare fiori magnifici nel suo giardino.
A raccontare è Mel, in prima persona. La non-fiction si aggrappa alla fiction: Toews figlia s’incarna in Toews padre, prendendone occhi e linguaggio, soggiornando nei ricordi, provando da lì a rammendare un’emotività cubica, traballante, che ha una radice clinica: psicosi maniaco-depressiva, oggi chiamata disturbo bipolare, diagnosticatagli a diciassette anni.
Da pagina a pagina balziamo tra due umori antagonisti – mania e depressione – che lo svegliano un giorno iperattivo, con la parlantina e tic di euforia, e l’altro spento, a rosolare nel senso di colpa. Posti bui, in cui riusciamo a stare, perfino a sorridere, grazie all’attitudine della Toews di togliere peso alle cose difficili venandole, se serve, di umorismo. Qui significa anche sfrondare la prosa, con frasi che paiono lampi, o promemoria a sé stesso: «Infermiera ancora qui. Sempre brontolante. Pensare velocemente a qualcosa da scrivere. Se si azzarda a togliermi il quaderno la picchio. No non lo farò. Non so cosa farò. Continuare a scrivere».
Così Toews conduce un’indagine: capire di cosa è fatta la psicosi e – diventando un altro – dare logica a un atto illogico: «È davvero una spinta autodistruttiva, mi chiedo, volersene andare da tutto quello che conosci e che ami? La depressione è forse, in parte, una conseguenza del non sentirsi a casa in questo mondo e del farsene una colpa? […] Una persona depressa si dice, forse, Se solo fossi un essere umano migliore non sarei depresso, oppure si dice, Se solo il mondo fosse un posto migliore magari mi alzerei dal letto?» Ma pure consegna al lettore la resistenza, la fame d’aria di un uomo e i suoi demoni: più il disturbo rendeva straordinario camminare, parlare, più lui accudiva la casa rosa confetto bordata di petunie; educava le figlie; faceva da spalla alla moglie a cui invidiava «la capacità di rimanere la stessa nel tempo»; insegnava con genio, incoraggiando, ironizzando, organizzando. «Ero stato cresciuto secondo il precetto che la persona che siamo a casa e la persona che siamo al lavoro e nella comunità, possono essere diverse come il giorno e la notte».
Il senso di tutto è uno: la scrittura cura, e se non cura mitiga. «Scrivere è la conseguenza di un bisogno di capire le cose». Serve a un padre che non sa di essere stato un buon padre e supplica la figlia di metterlo su carta, serve per le promesse («Tornerò a star bene»), per le definizioni («Non sono malato»). Serve alla Toews per fuggire, anche lei, nella vita, lontano dal Manitoba, dalla cittadina d’origine, dove i treni non passano e un’impermeabile comunità mennonita impone rigore, decoro («Quanti mennoniti ci vogliono per cambiare una lampadina? Risposta: cambiare?»).
Alla fine, quelle di Mel-Miriam sono dichiarazioni d’amore e pentimento, come quelle che lasciano i condannati prima del buio, come gli schiavi afroamericani nei loro canti liberi. E allora swing low, Mel: dondola dolcemente, torna a casa, dalle petunie bianche e rosse. Ché sei libero.
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